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Prigionieri Borbonici

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Intanto, si consumava il crollo definitivo del Regno delle Due Sicilie: il 14 febbraio cadeva infatti Gaeta, e appena un mese dopo, il 13 marzo, la cittadella di Messina. I soldati che avevano preso parte all'estrema difesa del forte siciliano, circa 4.300 uomini, erano temporaneamente rinchiusi nelle carceri di Scilla, Milazzo e Reggio, e subito dopo alcuni di loro erano imbarcati per Genova, e qui costretti a rimanere ammassati, per giorni, in asfittici depositi dirimpetti al porto, in attesa di essere passati in rassegna: il Governo non era preparato ad accogliere quel gran numero di prigionieri, ed i locali della Commissione si rivelavano insufficienti.

 Prigionieri della battaglia di Messina inviati a Genova (1861)

 

26 marzo

 

1ª spedizione

 

n. 1.040

 

16-17 aprile

 

2ª spedizione

 

n. 514

 

19 aprile

 

3ª spedizione

 

n. 1.042

 

 

 

Totale 2.596

(Dati tratti dalla Relazione del Maggior Generale Federico Torre, Direttore Generale delle Leve, Bassa-forza e Matricola al signor Ministro della Guerra sulle Leve eseguita in Italia dalle annessioni delle varie Provincie al 30 settembre 1863).

Nonostante il continuo afflusso di soldati, comunque, ancora al 1° giugno si era ben lontani dal raggiungere risultati soddisfacenti: la soglia dei reclutati restava al di sotto dei 20.000 uomini, mentre gli sbandati aumentavano a dismisura. Per tamponare quella pericolosa emorragia, le autorità davano vita a misure di arruolamento forzato, e già in agosto il governo doveva affiancare una nuova Commissione, stanziata a S. Maurizio, a quella del generale Boyl, essendo pressoché raddoppiato il numero di prigionieri: per quegli uomini, iniziava adesso il dramma della reclusione. La prigionia più atroce era quella del campo di Fenestrelle (clicca qui per vedere la foto): si trattava di un complesso di fortezze incuneate dentro la faglia di un monte, una specie di ferita della terra destinata ad accogliere l'inferno di chi aveva perduto battaglie e speranze. Il clima era glaciale, a causa dell'altezza elevata, e il trattamento riservato ai prigionieri ancora più rigido della temperatura: l'obiettivo fondamentale delle autorità era infatti la rieducazione degli sconfitti al nuovo corso (clicca qui per leggere la descrizione del campo da parte del cardinale Pacca) e finché quella redenzione non si fosse dimostrata inappuntabile, sarebbe stato assurdo pensare di liberare quegli uomini per assegnarli ai reparti dell'esercito nazionale. Si trattava di uno sforzo immane, e molto spesso vano: il 22 agosto del 1861 la vita del campo era sconvolta dalla scoperta di un tentativo di sollevazione dei prigionieri, che naufragava in un migliaio di arresti e di esemplari punizioni, e nel sequestro della bandiera borbonica.
Da quel momento, la disciplina interna veniva resa ancora più inflessibile: tutti i vetri delle imposte erano stati infranti, per fiaccare con il freddo la resistenza dei prigionieri; le ore di lavoro forzato erano raddoppiate; e una scritta particolare campeggiava all'ingresso della fortezza: "Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce". Si trattava di una forma di criminalizzazione del dissenso che negava ai reclusi qualsiasi forma di considerazione e di salvezza: presto, infatti, era stato chiaro a tutti che la liberazione sarebbe venuta solo con la morte, una fine in certi casi addirittura auspicata, e con la quale si imparava in fretta a familiarizzare, viste le condizioni in cui vivevano i detenuti.
I corpi gelidi di chi soccombeva per sempre venivano disciolti nella calce viva posta dentro una vasca, poco discosta dalla chiesa della prigione; era una morte anonima, priva di lapidi e di un ricordo, se si eccettua quello, doloroso, di chi in quella prigione ci restava, ad aspettare che arrivasse anche il proprio turno, covando risentimento e rimpianto del passato: «Chiedetelo a questi soldati pallidi e mal vestiti, avvicinateli tra le mura di Alessandria e di Genova - scriveva Calà Ulloa nelle sue "Lettres d'un Ministre emigré" - ed essi vi risponderanno con profondi e soffocati sospiri o con minacce nei riguardi dei loro oppressori. Vi domanderanno subito, con le lacrime agli occhi, notizie sul loro re, ed il loro re è Francesco II».
I più arditi provavano ad evadere: scappavano dai campi durante la notte, oppure chiedevano insistentemente di poter prestare servizio nell'esercito italiano, e una volta pronti ad essere inviati al reparto di destinazione si davano invece alla macchia. Non molti compivano in quell'impresa con successo, ma per chi riusciva a fuggire si aprivano strade diverse: qualcuno arrivava fino in Francia, in Svizzera oppure oltre il confine austriaco, e da lì provava poi a ricostruirsi una nuova esistenza; la maggior parte tentava però di raggiungere le province dell'ex Regno, per unirsi a quelle squadre di contadini e militari che avevano già dato vita al brigantaggio. Così, si percorrevano a piedi chilometri su chilometri, con la fame e la paura come uniche compagne di viaggio. La marcia non si poteva interrompere nemmeno quando la stanchezza diventava insopportabile, perché alle spalle c'erano le pattuglie dei carcerieri autorizzate a fucilare immediatamente i fuggiaschi. La prima sosta era possibile solo in prossimità delle regioni delle Marche e dell'Umbria, dove si riceveva accoglienza in attesa di essere "reclutati", a seconda delle necessità, nelle diverse bande armate. Si era creata insomma un'organizzazione efficiente - che si avvaleva di estese reti di protezione e capillari agenzie di soccorso - che predisponeva anche lo smistamento dei militari nei reparti di legittimisti che operavano a Sud: «L'attività degli emissari borbonici ebbe ardimento spiegarsi perfino sotto gli occhi del governo centrale, non dubitando d'intrudersi ancora nel seno degl'incontaminati battaglioni della vittoriosa armata italica. In Torino, nella stessa tranquilla Torino, e nelle sue adjacenze - scriveva nel 1862 Emidio Cardinali (clicca qui per leggere il suo libro per intero) - una rete di agenti promuovevano diserzioni col mezzo dei 'camorristi' qua e là sparsi nell'esercito dalle prime leve o per avventure capitati nei ruoli degli sbandati di Gaeta».
Il collegamento tra le fughe dei prigionieri e l'estendersi del fenomeno del brigantaggio non sfuggiva a nessuno: non al governo, che ormai diffidava apertamente di chiunque dichiarasse di voler prestare servizio nell'esercito; e soprattutto non alla stampa italiana, che dava vita a vivaci polemiche accompagnate dalle critiche feroci all'incapacità delle autorità di debellare quella piaga sociale. Così si esprimeva «La Gazzetta del Popolo» del 15 agosto 1861: «Nelle province napoletane si cercano, si scoprono e si colpiscono con sollecitudine i Comitati borbonico-clericali. E questo è bene. Ma ciò non basta. Bisogna anche cercarli, scoprirli e colpirli nell'Italia settentrionale, dove la presenza di questa peste [...] è rivelata da ostinate diserzioni di soldati e da altri fatti non meno evidenti».
Con il loro pesante fardello di rabbia repressa, quei refrattari - così venivano indicati nei documenti ufficiali - erano destinati a fornire la maggior parte dei quadri militari, e delle teorizzazioni politiche, alla guerriglia legittimista. Per sanare una ferita che rischiava di compromettere l'esistenza stessa della nazione italiana, il governo emanava, nel 1863, la legge Pica, che conferiva al potere militare competenze giurisdizionali nella repressione del brigantaggio: si trattava di una legislazione eccezionale, che prevedeva misure quali il domicilio coatto per gli individui sospetti e la fucilazione immediata per i criminali. Solo alla fine del 1865 la legge cessava di avere vigore e il Mezzogiorno si avviava ad una lenta e dolorosa transizione alla normalità: era tuttavia impossibile cancellare le 50.000 vittime di quella repressione.

S.A.G.

 
Principale bibliografia di riferimento

- Bottrigari E., Cronaca di Bologna, vol. III(1860-1867), a cura di A. Berselli, Zanichelli, Bologna 1961.
- D' Ideville H. , Journal d'une diplomate en Italie : notes intimes pour servir a l'histoire du Second Empire. Turin 1859-1862, Librairie Hachette, Paris 1872.
- Izzo F., I lager dei Savoia. Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento meridionali, Controcorrente, Napoli 1999.
- Martucci R., L'invenzione dell'Italia unita 1855-1864, Sansoni, Milano 2007.
- O' Clery Keyes P., La rivoluzione italiana. Come fu fatta l'unità nazionale, Libreria editrice Desclée Lefbvre e C, senza data.
- Ulloa Calà P., Lettres d'un ministre emigré : suite aux lettres napolitaines, Typ. Marius Olive, Marseille 1870.