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Tra esilio e obbedienza al re

«Io non dubitavo della sfavorevole accoglienza, che per parte del governo, m'aspettava negli Stati Sardi, e mi venne l'idea, sulla rada di Livorno, di chiedere asilo a bordo d'un vascello inglese, che vi si trovava ancorato. Il desiderio, però,di veder i miei figli, prima di lasciar l'Italia, ove sapevo di non poter stare, prevalse, e verso settembre sbarcammo in salvo a Porto Venere».
Nel settembre del 1849, per un rivoluzionario, il Regno di Sardegna è l'unico rifugio possibile in Italia, nonostante la circolare di fuoco del Ministro degli Interni Pinelli, che il 6 luglio esortava le autorità a non permettere l'ingresso nello Stato, specialmente «al riguardo di Mazzini, Garibaldi, Mameli, Bixio [...]». Giuseppe, però, non è ancora a conoscenza dell'evoluzione della situazione politica in Piemonte, e vi si dirige, passando per la Liguria. Le sconfitte militari e la morte di Anita - con tutte le polemiche e le beghe legali che si porta appresso - pesano addosso come macigni. Il governo sardo, al suo arrivo, si pone immediatamente il problema di come renderlo politicamente inoffensivo: così, il generale La Marmora lo fa arrestare e tradurre a Genova in carrozza chiusa, nel carcere del Palazzo Ducale. Garibaldi assicura di essere disposto ad emigrare subito, ma prima vuole recarsi a Nizza a visitare la sua famiglia. Grazie alla mobilitazione della stampa e di alcuni autorevoli politici riesce a farsi rilasciare, e subito si dirige verso la sua città natale, dove incontra la madre e i figli. Dopo essersi reimbarcato, rimane a Genova, a bordo della fregata S. Michele, dove va a visitarlo La Marmora: «Garibaldi non è un uomo comune, la sua fisionomia, comunque rozza, è molto espressiva. Parla poco e bene, ha molta penetrazione; sempre più mi persuado che s'è gettato nel partito repubblicano per battersi, e perché i suoi servigi erano stati rifiutati. Né lo credo repubblicano in principio. Fu un grave errore non servirsene. Occorrendo una nuova guerra è uomo da impiegare». Per il momento, però, non soffiano venti di guerra all'orizzonte, e Garibaldi parte per Tunisi il 16 settembre. Lì, il governo gli impedisce lo sbarco, ed il vapore fa rotta per Cagliari, dove viene rifiutato e esiliato sull'isola della Maddalena per un mese. Il 24 ottobre, su una nave da guerra, il Colombo, Garibaldi - insieme a un piccolo gruppo di uomini - parte per Gibilterra. Vi giunge il 9 novembre. Il clima freddo e la demoralizzazione lo spingono, il 14, a dirigersi verso Tangeri, dove si ferma più a lungo. Lì inizia la stesura della sua autobiografia e si accontenta di una vita oziosa. Nel giugno 1850 lascia Tangeri e il 27 salpa per New York, sul Waterloo, che lo porta a destinazione dopo 33 giorni. Nella città statunitense è già un mito, un personaggio da romanzo, un vero e proprio eroe. Può stringere amicizie importanti (tra gli altri, Meucci), e dedicarsi a quegli svaghi che ama, ma per cui non ha mai trovato tempo: gli scacchi, le bocce, la lettura.
Ma non è fatto per una vita tranquilla, così riprende i suoi viaggi: nel 1851 è a Lima, dove ottiene il sospirato comando di una nave. Comincia un lungo giro per il mondo: le Hawaii, Canton, la Cina, le Filippine, l'Argentina, il Brasile, l'Uruguay, i Caraibi. Ma la sua mente è rivolta all'Italia. «Non so nulla d'Italia, e credo nulla vi sia di ben importante tranne il di lei servaggio e la pacatezza dei suoi figli. Molti vedono ogni giorno dei moti, io non vedo nulla, e continuo da marinaro». L'occasione del rientro arriva nel 1854 e il 16 gennaio s'imbarca sul Commonwealth. Una breve sosta a Londra, dove incontra Mazzini, e il 6 maggio tocca finalmente il porto di Genova, dove riceve calorose accoglienze. Infine, una visita alla sua terra natìa. Riprende l'attività di comandante ed effettua diversi viaggi tra Genova, Nizza, la Francia e la Gran Bretagna.
Intanto, si innamora di una piccola isoletta adiacente alla Sardegna: Caprera. Lì costruisce una piccola casa in muratura, che circonda di alberi. Vive immerso nella natura, con la famiglia e pochi altri affetti.
Intanto, in Italia, i protagonisti delle vicende del '48 cominciano a riflettere sulla sconfitta: in particolare, il movimento democratico si interroga sulla sua incapacità di coinvolgere le masse. Si fa sempre più forte l'idea che per ottenere l'unità della penisola bisogni affidarsi alla monarchia sabauda, l'unica in grado di sostenere un considerevole sforzo militare. Questo avvicinamento al Regno di Sardegna è reso possibile anche dal carisma del suo Presidente del Consiglio, il conte di Cavour.
Quest'ultimo, attraverso un'abile gioco diplomatico, riesce - passando dalle riforme interne all'intervento nella guerra di Crimea del 1853, fino alla partecipazione al Congresso di Parigi del 1856 - a tessere una rete diplomatica che gli consente di tentare l'unificazione di almeno una parte della penisola. Mazzini, però, rimane contrario a questo avvicinamento, convinto com'è che l'unità debba arrivare piuttosto da un'insurrezione popolare. È così che si consuma il distacco definitivo con Garibaldi, soprattutto dopo la spedizione di Pisacane del 1857. «Sono sempre stato repubblicano, tutta la mia vita, ma ora non si tratta della repubblica. Le masse italiane, io le conosco meglio di Mazzini; ho vissuto in mezzo a loro, la loro vita. Mazzini conosce l'Italia colta, e ne domina gli spiriti, ma con essi non si mette insieme un esercito per scacciare gli austriaci e il papa; per le masse, per il popolo italiano, v'è una sola bandiera: l'unità e la cacciata degli stranieri! E come si può arrivare a ciò, se ci si tira addosso l'unica forte monarchia italiana, la quale, poco importa per quali motivi, è disposta ad impegnarsi per l'Italia, ed ha paura; invece d'accattivarsela, la si respinge e la si offende. Il giorno in cui quel giovanotto (Vittorio Emanuele) crederà d'essere più vicino agli arciduchi che a noi, le sorti d'Italia s'incepperanno per una o due generazioni». Con queste considerazioni, Garibaldi incontra Cavour, per la prima volta, il 13 agosto del 1856. Poi, di nuovo, il 20 dicembre del 1858, dopo che a luglio si erano firmati gli accordi di Plombières. Nel frattempo è diventato vice-presidente della Società Nazionale: della sua lealtà monarchica non si dubita più. Il conte pensa anche di metterlo al comando di volontari, che già cominciano ad accorrere a migliaia dalla Lombardia e da altre regioni. Con queste intenzioni introduce il generale al re: «Nato rivoluzionario io non ho mancato, quando necessario, di sottopormi a quella disciplina necessaria, indispensabile alla buona riuscita di qualunque impresa, e sino dal tempo ch'io m'ero convinto dover l'Italia marciare con Vittorio Emanuele, per liberarsi dal dominio straniero, io ho creduto un dovere sottomettermi agli ordini suoi a qualunque costo, anche facendo tacere la coscienza mia repubblicana».
Il 17 marzo viene costituto il corpo dei Cacciatori delle Alpi, al comando di Garibaldi, nominato generale dell'esercito sardo: circa 3.200 uomini, con una cinquantina di guide. Il 27 aprile, dopo che Cavour ha respinto l'ultimatum, le truppe austriache varcano il Ticino. Napoleone può entrare in guerra: mette in campo 120.000 uomini; altri 60.000 formano l'esercito sardo. I nemici ne hanno 170.000. Il 4 giugno i francesi sconfiggono gli austriaci a Magenta, ed il 24, dopo una dura battaglia sulle alture di Solferino e San Martino, riportano un'altra vittoria. Garibaldi ha avuto libertà di movimento, ha marciato verso Arona, poi da lì verso Varese, ancora a Como, Lecco, Bergamo: ha ottenuto così che gli austriaci fossero allontanati dalla zona lombarda del Lago Maggiore. Giunto a Brescia ha avuto termine la sua autonomia d'azione: il 15 giugno è il re in persona a consegnargli l'ordine di portarsi a Lonato, presso il quartier generale dell'Imperatore Francesco Giuseppe. Lì rischia di essere sconfitto, viene salvato solo dall'intervento delle truppe regolari. La sua tenacia non viene meno, anche se è proprio questo a procurargli la riprovazione di chi nelle sue ostinazioni non scorge la forza di un ideale eroico ma piuttosto il cieco dominio della passione (clicca qui per leggere il giudizio polemico su Garibaldi ad opera di Pier Carlo Boggio).
Il 18 giugno la brigata rientra a Salò: i Cacciatori hanno raggiunto il numero di 12.000 e vengono inviati a proteggere il valico dello Stelvio. Il 7 luglio il Comando Supremo affida a Garibaldi la difesa delle vallate alpine, ma l'8 Napoleone firma l'armistizio di Villafranca, mettendo fine, dopo soli due mesi, alla seconda guerra d'indipendenza.
Sembra che il tempo della speranza sia finito, ma il generale è già pronto ad imbarcarsi per una nuova impresa.
Destinazione: Sicilia?

A.F.