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Biancavilla

Nel corso del XIX secolo il territorio di Biancavilla era stato sottoposto a diverse frizioni dovute all'annosa questione dello scioglimento degli usi civici, che portava con sé la spinosa problematica della distribuzione delle terre demaniali. Questi attriti - fomentati da una classe politica borgese - avevano provocato, nel corso delle esplosioni rivoluzionarie del 1820 e del 1848, veri e propri "assalti alle terre", che quel ceto rampante aveva deciso di cavalcare, al fine di aumentare il proprio peso all'interno del Comune. Si trattava, tuttavia, di una strategia "a tempo determinato", destinata in breve tempo a mostrare le corde, e a trasformarsi in episodi di lampante trasformismo politico: molti agitatori rivoluzionari, infatti, già all'inizio della restaurazione avevano abbandonato la direzione di quella scomoda battaglia, divenendo in fretta fedeli sudditi della monarchia.
Un esempio di questo atteggiamento era quello di Angelo Biondi - presidente del Comitato rivoluzionario nel 1848 e "borbonico di ritorno" dopo il 15 maggio dell'anno successivo - che nei primi mesi del 1860 aveva deciso di mutare ancora schieramento, fino a diventare il punto di riferimento di una numerosa fazione di braccianti, che reclamava adesso una rivincita nei confronti degli "usurpatori" e un immediato risarcimento dei torti subiti. Ad agire da moltiplicatore delle tensioni erano poi intervenute le speranze di rinnovamento legate allo sbarco di Garibaldi, nonché il progressivo sgretolamento dell'apparato statale borbonico. Di fronte ai brandelli dell'autorità pubblica e alle vittorie del liberatore dei due mondi, i contadini avevano creduto che fosse finalmente giunto il momento di agire, nonostante i tentennamenti di Biondi, che cercava adesso di gestire il conflitto sociale senza compromettere l'ordine pubblico. I suoi appelli, tuttavia, erano destinati a rimanere privi di seguito: gli eventi della primavera del 1860 avrebbero mostrato in modo definitivo quanto la sua autorità fosse ormai compromessa.
Alle prime ore del 27 maggio, infatti, una folla tumultuosa, guidata da due dei più influenti capi dei "comunisti", Salvatore e Vincenzo Papotto, era scesa in campo, reclamando a gran voce la distribuzione delle terre comunali e di quelle usurpate. La portata della protesta era cresciuta nei due giorni successivi, e la fiumana di reclamanti si era ingrossata fino a sfiorare la soglia di 4.000 persone: tutti insieme avevano occupato allora le terre contese, cominciando ad abbattere alberi e ad incendiare case e proprietà.
Infine, dal 3 al 7 giugno la rivolta si era tinta di rosso. La distruzione era sfociata in feroci omicidi, eseguiti da alcuni braccianti guidati da Giuseppe Furnari, che avevano lasciato sul suolo ben 14 cadaveri, decapitando così il vertice di quell'èlite possidente arricchitasi attraverso le usurpazioni.
Solo il 15 giugno l'intervento del Generale Poulet, che con le sue compagnie aveva represso il moto manu militari, era riuscito a ricondurre il paese all'ordine. Per Biancavilla si era aperta così la fase della giustizia sommaria: il Consiglio di guerra, convocato in tutta fretta, aveva deliberato la condanna a morte per Giuseppe Furnari, e numerose pene detentive per gli altri contadini coinvolti nei fatti di giugno. Biondi, invece, dopo un processo durato due anni era stato prosciolto.

A.F.