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Noto

Noto è uno degli esempi paradigmatici del conflitto politico che esplode in Sicilia all'indomani della spedizione dei Mille. Nella cittadina iblea, l'8 aprile 1860 i democratici locali, capeggiati da padre Vincenzo Rubera, al segnale convenuto delle campane che suonavano il "Gloria" si appuntavano al bavero una coccarda tricolore, e davano vita ad una colorata e chiassosa marcia per le vie del centro cittadino. Avvisato dell'accaduto, l'Intendente provinciale, Nicola Mezzasalma, faceva arrestare diverse persone coinvolte nei fatti, anche se nel suo rapporto tendeva a ridimensionare l'evento: «In questa Provincia grazie al buon senso della grande massa avversa interamente del disordine si tenne fermo, ed il dignitoso contegno serbato impose ai pochissimi tristi uomini che si affaccendavano per turbare la pubblica tranquillità non per altro scopo che per profittare delle altrui sostanze. Le rimango soddisfattissimo e son lieto di potere rassegnare a V.E. che in questo Capoluogo e in tutti i Comuni, tranne di uno sparutissimo numero di faziosi misti a fanciulli, agitantisi senza scopo, senza mezzi e senza pratiche, il numeroso ceto dei villici, i maestri ed i Civili bastano da se medesimi a neutralizzare e rendere impotenti gli sforzi della debole fazione, al segno che in tutti i luoghi in tutti i paesi le sacre funzioni della passione di Gesù e la festa della sua resurrezione si solennizzarono nei modi consueti con tutta pompa senza potersi deplorare il benché minimo disturbo».
Pochi giorni più tardi, alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, erano sempre i democratici a prendere l'iniziativa: Lucio Bonfanti, membro del Comitato segreto di Catania, scriveva infatti ai fratelli Pietro e Antonino per spingerli ad insorgere. L'invito era prontamente recepito, e il 16 maggio, i Bonfanti - insieme a una ventina di congiurati, tra i quali Vincenzo Catera - assaltavano il carcere per liberare i prigionieri politici. Subito dopo raggiungevano l'abitazione del commissario di Polizia, Malato, si impadronivano di alcune armi e, dopo aver disarmato le guardie urbane e il capitano della Compagnia d'Armi, Salvatore Lo Iacono, occupavano il Municipio.
Al contrario, i moderati netini, guidati da Antonino Sofia, per il momento sceglievano l'inerzia: non avevano notizie sicure circa lo sbarco di Garibaldi, e ritenevano pertanto prematuro qualsiasi tentativo di insurrezione. Così, restavano fermi, in attesa di nuovi sviluppi. I loro tentennamenti erano tuttavia destinati ad avere fine già l'indomani, quando le notizie di Marsala portavano Sofia a decidere di schierarsi a fianco degli insorti: l'eccezionalità della rivoluzione - e gli inediti orizzonti politici che essa spalancava - spingevano infatti tutte le èlites a voler partecipare alla gestione del potere locale, anche a costo di schierarsi a fianco di coloro i quali fino a quel momento erano stati considerati dei nemici.
Quella notte, la piazza principale del paese era addobbata con una bandiera tricolore, che recava la scritta «Viva l'Italia e Vittorio Emanuele. Morte a chi tocca questo sacro vessillo». All'alba del venerdì la guardia urbana veniva accolta da quell'insolente sventolio, ma non aveva il coraggio di rimuovere la bandiera perché i membri del comitato segreto erano usciti allo scoperto e avevano preso il sopravvento. Finiva così l'assedio dei democratici asserragliati al Municipio e tutti i liberali netini si incamminavano in un nuovo, festoso corteo per le vie cittadine, distribuendo coccarde tricolore alla popolazione: funzionari e poliziotti borbonici rimanevano in casa o preferivano fuggire; del resto - come scrivevano da Napoli all'Intendente - «è volere di S.M. che [? ]quando più non potesse tener fermo in Noto, si ritiri in Siracusa con tutte le autorità».
Intanto, arrivava in città la conferma ufficiale dello sbarco dei Mille, insieme alla notizia della vittoria nella battaglia di Calatafimi: da lì, le informazioni venivano irradiate a tutti i centri, agendo da moltiplicatore del collasso delle autorità.
Nella mattina del 19, un focoso proclama partiva da Noto all'indirizzo di tutti i Comuni del Capoluogo: «Fratelli cittadini della provincia, Il vessillo della libertà sventola nella città di Noto, inaugurato da un intero popolo fra le grida di Viva l'annessione! Viva l'Italia! Viva Vittorio Emmanuele! È questa la più solenne dichiarazione di volere concorrere al voto di tutta la Penisola, oggi redenta della schiavitù dello straniero. Queste sono le grida che ci rendono forti, unendoci a ventiquattro milioni di popolo italiano che ci ha precessi coll'esempio di mirabile virtù e unanimità di sentire. Fratelli, l'Unione fa forti i deboli e l'unione può consolidare la massima libertà. Sorgete quindi ed associatevi all'opera nostra, scuotete il gioco che tutt'ora vi opprime, e sappiate che non c'è libertà senza rispetto alla vita, alla proprietà dei cittadini, e sia unanime il grido di: Viva l'annessione! Viva l'Italia! Viva Vittorio Emmanuele! Noto 16 maggio 1860».
Così, negli stessi giorni e nelle settimane seguenti insorgevano quasi tutti i paesi della provincia, ad esclusione di Siracusa ed Augusta, presidiate dall'esercito borbonico: Ragusa e Scicli si muovevano il 17 maggio; Rosolini, Avola, Palazzolo, Buscemi, Chiaromonte e Comiso il 20; Canicattini il 23.
Indubbiamente l'elemento democratico aveva dimostrato la sua capacità organizzativa e l'acuta consapevolezza che solo la sollevazione dell'intera provincia avrebbe garantito alla rivoluzione un esito positivo e duraturo. Però, decisivo si mostrava adesso l'intervento dei moderati. Memori dell'esperienza del '48, quando il timore dell'anarchia e dei saccheggi aveva contribuito alla reazione borbonica, avevano fatto del mantenimento dell'ordine pubblico la loro principale preoccupazione, in forza della quale avevano subito inviato istruzioni precise e dettagliate sulla costituzione di governi provvisori nei diversi Comuni: «Istituivasi una guardia municipale, attivavasi la compagnia d'armi, va ad organizzarsi la Guardia Nazionale, e una squadra onde partire a un bisogno per i punti dove la causa della Patria lo chiama. Misure di tutto rigore non escluse la fucilazione si sono adottate per gli attentati contro le persone e le proprietà, affidandone l'esecuzione alla Guardia Nazionale che deve garentire la pubblica sicurezza perché l'ordine è puro cardine della libertà».
Il loro prestigio era destinato ad accrescersi ancora: il 13 luglio, dopo un decennio d'esilio, rientrava da Malta un leader del moderatismo netino, Matteo Raeli: il suo carisma, la sua rete di relazioni, la sua esperienza politica dovevano tradursi in un duro colpo per le ambizioni dei democratici. In pochi giorni Raeli fondava un giornale, «L'Italiano», e completava una sottoscrizione di 2.000 ducati a favore della causa nazionale. Anche riguardo al problema dell'annessione, che vedeva contrapposti democratici e moderati, egli era in grado di agire con fermezza, adoperandosi nei lavori di compilazione delle liste elettorali, al fine di accelerare l'unione della Sicilia al Regno d'Italia. La posizione apertamente filo-annessionista rivendicata da Raeli e dai suoi compagni rispecchiava infatti la precisa volontà del moderatismo netino di accreditarsi quale referente privilegiato della monarchia sabauda, ricavandone in cambio benefici in termini politici ed economici.
In quel contesto, le intemperanze dei democratici erano destinate a scavare un ulteriore solco all'interno della già scissa compagine governativa, trasformando il grido di libertà che fino a quel momento aveva unito tutti gli schieramenti politici in un coro stonato di voci discordi. Il 22 luglio, infatti, l'armiere Vincenzo Catera, uno degli insorti del 16 maggio, aveva dato vita ad un nuovo moto popolare, che la Guardia Nazionale - al comando del moderato Vincenzo Trigona, barone di Cannicarao - aveva immediatamente deciso di stroncare. Ne era seguita una rissa, durante la quale Catera aveva cercato di pugnalare Trigona. Immediatamente, per lui, era scattato l'arresto, poi la condanna a morte per tentato omicidio, eseguita già all'alba del 25 luglio. Era evidente che dietro alla ribellione dell'armiere e alla dura sentenza del Tribunale di Noto c'era altro. C'era la volontà, da parte della componente moderata, di accreditarsi come garante dell'ordine per assurgere al ruolo di èlite dominante, sottraendo definitivamente quel ruolo a coloro i quali per primi avevano acceso la miccia della rivoluzione - i democratici - ma si erano poi rivelati incapaci di gestire adeguatamente gli sviluppi della vicenda. Per tutta la fase di "assestamento" del nuovo Stato, a Noto il potere locale doveva essere così gestito dagli esponenti moderati della nobiltà e dalla borghesia agraria e professionale, che in breve sarebbero riusciti ad ottenere la maggioranza assoluta nel Consiglio civico, oltre alla maggior parte delle cariche amministrative.
In questo modo, ai democratici restava solamente un riconoscimento pubblico del loro operato, che suonava un po' come una beffa: «I cittadini Antonino e Pietro, fratelli Bonfanti, Gaetano Zocco, Sebastiano Storaci, Mariano Cultrera, Antonino e Vincenzo, fratelli Catera, Paolo, Salvatore, Antonio e Corrado, fratelli Dugo, Francesco Randone Sipione, Giuseppe Buscemi, Francesco Manfrè Mirmina, Salvatore Cicardo, spinti e diretti da Catania da Lucio Bonfanti [...] compirono [...] gli atti tutti di una rivoluzione formale, col massimo rispetto all'onore, ed alla proprietà, ed alle persone, custodendo il paese con solerzia ed energia, tale, che fuvvi disturbo alcuno all'ordine pubblico e nessuno attentato d'infamia dai tristi, che in simili emergenze sogliono slanciarsi a malfare».

A.F.