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Arriviamo alle soglie del 1860: Calvi stringe sempre più i contatti con la Sicilia, e dopo la spedizione di Garibaldi fa ritorno in Sicilia. In qualità di Presidente della Corte di Cassazione, è lui a consegnare a Mordini i risultati del plebiscito siciliano, all'inizio di novembre: «Signor Prodittatore, Onorati il Supremo Collegio della Magistratura del Nobile ministero dello scrutinio dei voti con cui il Siciliano popolo ha risposto alla proposizione:"Vogliamo L'Italia una e indivisibile con Vittorio Emmanuele Re Costituzionale e suoi legittimi discendenti" [?]. Venghiamo a presentarvi, o signore, il solenne documento che attesterà alle età future il più gran compito che abbia fornito un popolo nella carriera dei suoi destini dandosi libero, spontaneo in governo analogo ai tempi e alla presente civiltà; che attesterà la parte, e non tenue, che questa nobile Provincia ha dato alla fondazione dell'opera gloriosa dell'Italica nazionalità, una e indivisibile sotto lo scettro costituzionale di un Re, il cui nome passerà nei fasti del mondo col glorioso attributo unico di Re Galantuomo, opera immortale, in primo luogo del Gran Cittadino che ha già riempito il mondo di una fama imperitura, in secondo luogo della eletta schiera dei nostri fratelli del continente che divisero coi nostri prodi i pericoli ed i sacrifici di sangue e di fortuna, e finalmente del concorso efficace vostro, o signore, che siete stato sinora il supremo reggitore delle cose nostre».
La lettura di quel verbale procura a Calvi una ventata di polemiche: c'è chi lo accusa di incoerenza, chi di aver segretamente cospirato contro il regime di Garibaldi. È per rispondere a quelle calunnie che pubblica sul giornale «La Forbice»una lettera al Consiglio dell'Interno e della Sicurezza Pubblica: «Sappiate dunque, o signori, che le mie opinioni, in tutti i tempi (e credo averne dato al mio paese buona e ineluttabile prova) han tenuto accordo coi miei atti. Volgete quindi gli occhi ai due, e più solenni della mia vita, al mio giuramento come magistrato nel 1840 e al mio voto come cittadino, e vi avrete per essi, irrefragabil testimonio della mia coscienza politica». Le parole di Calvi tuonano chiare: è stato il ruolo pubblico che ricopre a costringerlo alla lettura di quel documento, lui che insieme a Crispi e Cattaneo si è fatto, fino all'ultimo, strenuo portavoce della necessità che fosse un'assemblea elettiva, e non un plebiscito, a dichiarare l'annessione. Alla fine, anche lui, come gli altri, si è ritrovato vinto, costretto a cedere ad una maggioranza approdata in blocco ad una posizione diversa dalla sua.
Il problema, comunque, non è solo quello. Presto, infatti, il governo piemontese inizia a guardare con sospetto gli esponenti della democrazia radicale, specie se di simpatie repubblicane e socialisteggianti, come nel caso di Calvi. Si teme, soprattutto, che restando in Sicilia possa usare le proprie amicizie per tentare un colpo di mano rivoluzionario. Non lo aiuta, poi, il fatto di snobbare sin dalla prima seduta le adunanze alla Camera, cui pure è stato eletto nelle consultazioni del 1862: viene quindi trasferito a Firenze, e a partire dal 1865 a Torino; non esiterà a definire quel trasferimento un nuovo esilio, ancora più sofferto del primo.
Intanto, inizia la stesura del suo Catechismo politico, uno scritto ancora più radicale di quelli del passato, quasi una sfida all'indirizzo del governo.
A settembre del 1866 il colera dilania la Sicilia: Pasquale chiede un periodo di aspettativa e parte alla volta di Castellamare, dove i suoi familiari hanno trovato riparo; alla fine del mese scrive a Crispi - il solo contatto, oramai, con i circuiti politici di una certa rilevanza - per invocare il suo interessamento, affinché gli sia concesso di rimanere un altro mese in Sicilia. L'intervento di Ciccio, se pure tempestivo, si rivela inefficace: Calvi è costretto a imbarcarsi per Genova, e a patire una lunga quarantena nella città del Levante per far ritorno al suo ufficio.
Alla metà di giugno del 1867, dopo aver saputo del trasferimento a Napoli del presidente della Cassazione di Palermo, si affretta a scrivere all'amico Crispi: «Credete voi che il profittare dell'occasione, e il chiedere la mia traslocazione a Palermo, potesse recar pregiudizio all'avvenire? Io ò tanta fede in voi, [?] nella vostra sagacia [?]. Se credete che il farne la dimanda non sarebbe che innocuo, avvisatemi tosto perché io possa promuovere la mia istanza, e non lasciate che altri mi prevenga». Poco dopo, non c'è più tempo per la scrittura: le notizie dalla Sicilia si fanno sempre più allarmanti, e Pasquale abbandona il suo ufficio per andare vicino alla famiglia. All'inizio di settembre è sull'isola, e dopo pochi giorni contrae il colera. Si spegne alla fine del mese, accanto ai suoi cari. Il suo corpo riposa nel Pantheon di Palermo.
A.F.
Principale bibliografia di riferimento:
- [Calvi P.], Memorie storiche e critiche della rivoluzione siciliana del 1848, Londra, 1856;
- [Calvi P.], Memorie storiche e critiche della rivoluzione siciliana del 1848, Appendice, Londra 1851;
- [Calvi P.], Poche osservazioni sopra un atto del 28 febbraro 1849 indiritto ai Siciliani, Palermo, 1849;
- [Calvi P.], Poche parole sulla Rivoluzione Siciliana all'alba del 12 gennaro 1848, Palermo, 1848;
- Alatri P., Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra (1866-74), Torino 1954,
- Bonello V. - Fiorentini B. - Schiavone L., Echi del Risorgimento a Malta, Malta 1963;
- Gaudioso M., Nel centenario della morte di Pasquale Calvi. La polemica quarantottesca in Sicilia, in Movimento operaio e socialista, XIV (1968), 1-2, pp. 25-54.
- Guarnotta C., Pasquale Calvi nel Risorgimento siciliano, in La Sicilia nel Risorgimento italiano, I (1931), 2, pp. 9-62;
- Nicotri G., Pasquale Calvi e il Risorgimento siciliano, Palermo 1914;
- Nicotri G., Rivoluzioni e rivolte in Sicilia, Torino 1910.
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