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NICOLA FABRIZI, (Modena, 31 marzo 1804 - Roma, 31 marzo 1885)

Francesco Crispi lo ricordava come l'uomo che «lavorando per libertà e la unità d'Italia predilesse con amore filiale la Sicilia» e in effetti, al di fuori di ogni retorica, l'attenzione e l'interesse per l'isola fu una costante della vita di questo longevo protagonista del processo di costruzione dello Stato italiano. La sua è la storia di uno stratega che pensò di partire dal Mezzogiorno per diffondere la rivoluzione nell'intera penisola, e di un'idea astrusa, la Sicilia come inizio, che Fabrizi meditò e rese pubblica nell'arco di un confino vagabondo trentennale.
Primogenito di Ambrogio, avvocato, e della contessa Barbara Piretti di Pisa, a diciassette anni, studente della facoltà legale con un diploma di notaio, era già affiliato alla Carboneria e presto coinvolse nelle attività cospirative anche i fratelli più piccoli Paolo, Luigi e Carlo. Parteciparono tutti alla congiura guidata da Ciro Menotti nel 1831 e dopo la repressione da parte del duca Francesco IV presero la via dell'esilio.
Nicola si rifugiò a Marsiglia, dove nel 1832 fece il suo primo incontro con Giuseppe Mazzini, di cui divenne intimo amico. Da Ginevra partecipò nel gennaio 1834 ai preparativi per l'invasione della Savoia, e dopo quello che si rivelò l'ennesimo fiasco per la Giovine Italia si trasferì a Barcellona, dove infuriava la prima guerra carlista. Per difendere la causa dei liberali spagnoli entrò nella legione portoghese, nei ranghi della brigata guidata dal ligure Gaetano Borso di Carminati, insieme ad altri nomi illustri della cospirazione italiana, Enrico Cialdini, Manfredo Fanti, Nicola Ricciotti, Giacomo Durando, Ignazio Ribotti, Domenico Cucchiari. Nel 1837 venne a conoscenza di una rivoluzione che era divampata a Catania e partì alla volta di Malta per imbarcarsi per la Sicilia, fermandosi però nella colonia inglese dopo aver appreso del fallimento del moto. Sull'isola decise di formare un comitato per preparare una rivoluzione che, a partire dalla propaggine meridionale del Regno borbonico, accendesse l'Italia intera. Fabrizi era un convinto sostenitore dei vantaggi della guerra per bande che aveva sperimentato nella penisola iberica, oltreché dell'iniziativa meridionale, e fu ben felice di precipitarsi in Sicilia alla notizia della rivoluzione del 1848, dove ricevette il grado di colonnello. Fece ritorno nella sua città natale dopo che, cacciato Francesco V, si era formato un governo popolare, ma quando i ducati furono annessi al Piemonte monarchico, preferì a Modena Venezia e Roma, dove difese le istituzioni della Repubblica.
L'esilio post-quarantottesco di Nicola Fabrizi si svolse in una prima fase a Bastia e, a partire dal 1853, di nuovo a Malta. Nel 1855 iniziò a collaborare con Carlo Pisacane e il comitato di Napoli alla preparazione di un'insurrezione nel Meridione, preoccupandosi di procurare i mezzi materiali. Dopo il fallimento nel 1857 a Sapri di quel progetto, il modenese prese definitivamente le distanze da Mazzini e attenuò l'intransigenza repubblicana abbracciando l'idea della "bandiera neutra", ma senza mai mettere in discussione il principio unitario.
Nel 1859 dopo l'armistizio di Villafranca si mise in contatto col nuovo dittatore di Modena, Luigi Carlo Farini, che gli fornì i fondi per un'iniziativa rivoluzionaria nel Regno delle Due Sicilie. Iniziò così a lavorare alla trama cospirativa: a reggerne i fili sulla sponda opposta del Mediterraneo erano i prudenti comitati di Messina e Palermo, in corrispondenza con Francesco Crispi e Rosolino Pilo. Intanto era riuscito ad accumulare sull'isola un piccolo arsenale che avrebbe dovuto trasportare sulle spiagge siciliane a tempo debito, ma subito dopo la rivolta della Gancia si rese involontario protagonista della battuta d'arresto imposta alla spedizione dei Mille, a causa di un suo telegramma criptato del 26 aprile 1860 a Francesco Crispi. Così lo aveva interpretato il democratico riberese: «L'insurrezione vinta nella città di Palermo, si sostiene nelle provincie, notizie raccolte da profughi giunti Malta su navi inglesi», mettendo in allarme Garibaldi. Fabrizi intuì l'equivoco e scrisse a Luigi Orlando: «Sono tormentatissimo da due giorni nel dubbio che un mio dispaccio [?] per Ciccio, di giovedì mattina 26 abbia potuto essere frainteso». Non poteva rimettersi in contatto con il comitato a Genova a causa di problemi con le linee telegrafiche e, quando ci riuscì, la spedizione era già partita, grazie agli sforzi di persuasione in cui si prodigò Crispi per convincere il generale a partire. In seguito, scrivendo a Bertani, si lamentò di come ingiustamente fosse stato considerato l'unico responsabile del malinteso: «L'amico che mi graziò di responsabilità alla sua inversa interpretazione di un telegramma, mancò di giustizia nel non rettificare, come aveva mancato di criterio dell'interpretazione».
Il 12 maggio, ricevuta notizia dello sbarco, mise da parte le incomprensioni e iniziò a lavorare a quello che sarebbe stato il suo sbarco con uomini e mezzi in ausilio ai garibaldini. Il 4 giugno giunse a Pozzallo con 24 uomini, 1098 fucili, 180 barili di polvere, 20 quintali di piombo e centinaia di migliaia di munizioni. A quel nucleo iniziale, si unirono molti volontari siciliani lungo un itinerario che percorse la costa sud-orientale dell'isola e si sarebbe fermato a Messina. Si formò un'importante colonna armata, composta da 340 uomini e che venne detta dei Cacciatori del faro. Una volta giunti a Milazzo non solo riuscirono ad armare interamente il Battaglione dell'Etna, ma diedero il loro contributo diretto, sorvegliando i movimenti delle truppe borboniche comandate dal Colonnello Ferdinando Bosco dalle alture che sovrastavano la provincia di Messina, per coprire le spalle agli altri garibaldini. Così Nicola Fabrizi e i suoi uomini assistettero alla battaglia di Milazzo da 300 metri di altezza: avevano ricevuto l'ordine di rimanere a Santa Lucia a qualsiasi costo, pur di evitare che dai monti giungessero rinforzi alle truppe borboniche (clicca qui per leggere il racconto delle operazioni tratto da Episodio della guerra liberatrice meridionale di Nicola Fabrizi).
Nella città peloritana Fabrizi rimase anche dopo la partenza di Garibaldi: era stato nominato dal dittatore Generale d'armata e Comandante Militare di Messina, sebbene avrebbe preferito seguire la spedizione sul continente.
Con il decreto del 17 settembre 1860 divenne Ministro della Guerra della prodittatura di Antonio Mordini e mise mano ad un progetto di razionalizzazione dell'organizzazione dell'esercito meridionale, nella consapevolezza però che un esercito di volontari, nato nel momento eccezionale di una rivoluzione, sarebbe stato in fretta smantellato dal nascente Stato sovrano. Nell'esercizio del suo ministero si trovò in contrasto con l'Intendente generale Giuseppe Acerbi e con il suo vice NievoIppolito Nievo, che rivendicavano la propria funzione di controllo della spesa e criticavano gli sprechi dovuti all'esubero di personale negli ospedali e nelle istituzioni militari.
Dopo lo scioglimento del governo dittatoriale nel novembre 1860 tornò a Malta e, candidato alle elezioni del gennaio 1861 nel collegio di Augusta, subì una pesante sconfitta. Durante l'estate del 1861 fu inviato a Potenza, come ispettore generale della guardia nazionale mobile in Basilicata a tutela dell'ordine pubblico e a dicembre venne eletto al Parlamento nella circoscrizione di Trapani.
Nel 1862 fu arrestato a Napoli con l'accusa di essere coinvolto nel progetto garibaldino, miseramente concluso ad Aspromonte. In realtà era andato in Sicilia proprio per dissuadere il Generale nizzardo da quel disegno, ormai persuaso che la battaglia per l'unificazione dovesse essere condotta in un quadro legalitario, all'interno dell'aula parlamentare. Fabrizi non aveva però ancora rinunciato alla lotta su un vero campo di battaglia e diede altre prove del suo valore militare nel 1866, come capo di Stato maggiore dei volontari garibaldini nella guerra contro l'Austria e nella campagna del 1867. Nella sfortunata battaglia di Mentana depose definitivamente le armi. A partire da quell'anno si dedicò esclusivamente alla vita da deputato, sposando diverse importanti cause democratiche alla Camera, ad esempio votando contro l'imposta sul macinato o opponendosi alla legge sulle guarentigie, e continuando a lottare strenuamente insieme al resto della Sinistra Parlamentare «onde il concetto di Roma Capitale sia fatto esigenza della politica nazionale». In politica estera assunse posizioni molto vicine a quelle di Francesco Crispi: auspicava una maggiore esposizione italiana sul piano internazionale e l'alleanza con la Germania. Si spense nella sua residenza nella nuova capitale d'Italia, Roma, il 31 marzo 1885.

C.M.P.

Principale bibliografia di riferimento:

- AA.VV., Nicola Fabrizi patriota, cospiratore, deputato (1804-1885), Atti del Convegno di studi Castelnuovo Garfagnana, 19-20 settembre 1987, i "Rassegna storica toscana", a. XXXV, n. 1, gennaio - giugno 1989;
- Della Peruta F., I democratici e la rivoluzione italiana (dibattiti ideali e contrasti politici all'indomani del 1848), Feltrinelli Editore, Milano 1958;
- Mirone S., Cenni storici sul generale Nicola Fabrizi ed alcune sue lettere, Giannotta, Catania 1886.