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Dall'Aspromonte a Mentana: cieca ostinazione

Alla metà di agosto del 1862, dopo essere approdato in Sicilia per dare vita ad una triste replica della spedizione di due anni prima, Garibaldi si dirige verso le Calabrie. Intanto, i battaglioni dell'esercito italiano gli marciano contro, determinati a fermarlo. Dopo aver attraversato lo stretto, il generale approda a Mèlito, e da lì prende la strada del mare, in direzione di Reggio: lo stesso percorso del 1860, del tutto diversi gli obiettivi? Allora, infatti, i volontari in camicia rossa avevano stanato i borbonici per sconfiggerli, adesso invece cercano di nascondersi dalle truppe italiane, contro le quali non possono combattere. Il fuoco di una nave da guerra li costringe dunque a lasciare il litorale per addentrarsi sulle pendici dell'Aspromonte: si aggirano per giorni e giorni in mezzo a sentieri e boscaglie, costretti ad una marcia disorganizzata, ed evitati da contadini e pastori del luogo, che non vogliono compromettersi. La mattina del 29 agosto i reparti dell'esercito italiano, alla guida di Pallavicini, sono di fronte a loro. Garibaldi porta i suoi in posizione difensiva, e ordina di non sparare. Qualcuno dei suoi, però, disattende il suo comando, e a quel punto si apre il fuoco dei bersaglieri italiani, più numerosi e meglio organizzati. Mentre si affretta a bloccare l'azione, Giuseppe è raggiunto da due pallottole, una alla coscia sinistra e l'altra, molto più feroce, sulla caviglia destra. Non riesce a stare in piedi, i suoi ufficiali devono adagiarlo sotto un albero e rianimarlo. Intanto, i combattimenti si sono fermati, dopo appena una manciata di minuti: sul campo stanno 7 morti e 14 feriti tra i regi, 5 morti e 20 feriti per lo schieramento garibaldino. A sera, comincia la discesa in direzione della costa: occorre ricoverare immediatamente il generale, ormai allo stremo delle forze. Il vapore Duca di Genova lo trasporta a La Spezia, al Varignano, sede di un antico lazzaretto e di uno stabilimento penitenziario addossato a delle fabbriche, dove risiedono circa 250 uomini condannati ai lavori forzati. Garibaldi viene alloggiato in un'ala dell'edificio assieme ai figli ed ai suoi ufficiali: la loro sorte è tutta da stabilire. Qualcuno suggerisce di processarli regolarmente, altri vorrebbero invece che la pagina di quell'impresa avventata si chiudesse in fretta, e senza lasciare troppi strascichi. Alla fine, è il matrimonio della figlia di Vittorio Emanuele II a fornire l'occasione di un'amnistia, concessa il 5 ottobre e indirizzata ad autori e complici «dei fatti e tentativi di ribellione che ebbero luogo lo scorso mese d'agosto». Garibaldi, intanto, completa a Caprera la sua convalescenza, che si rivela più lunga e complicata del previsto (clicca qui per leggere la Storia medica della grave ferita toccata in Aspromonte dal Generale Garibaldi , Milano 1863). La sua è una vita molto più lenta, adesso, ma questo non gli impedisce di tenersi aggiornato sulle vicende italiane ed internazionali. Così, mentre ipotizza la partecipazione di un corpo di volontari a sostegno degli insorti che in Polonia, all'inizio del 1863, si sono ribellati alla Russia (un'idea presto accantonata, questa, per mancanza di uomini e di armi), il generale intanto partecipa, seppur a distanza, alla violenta polemica che si conduce in Parlamento a seguito dell'applicazione della legge Pica in Sicilia, che pone l'isola in un vero e proprio stato d'assedio, con l'obiettivo di sconfiggere il fenomeno del brigantaggio. In quell'occasione, la Sinistra si scinde tra chi propone le dimissioni di massa dei deputati, in segno di protesta, e chi preferisce continuare la battaglia dall'interno dell'aula. Il 21 dicembre, senza consultarsi con nessuno, Garibaldi propende per la prima ipotesi, e da Caprera rassegna il suo mandato di parlamentare. Alla fine di marzo dell'anno successivo parte per l'Inghilterra, dove si trattiene fino ai primi di maggio: si tratta di un vero e proprio bagno di folla, la definitiva consacrazione del suo mito da parte del popolo così come della classe politica britannica. Le pressioni affinché si stabilisca definitivamente a Londra sono numerose, ma Giuseppe vuole tornare a Caprera per tenere sotto controllo la situazione italiana: non ha ancora abbandonato la speranza di completare l'unità della penisola, conquistando Roma e Venezia. Effettivamente, un'occasione propizia pare presentarglisi già nell'aprile del 1864: il governo prussiano ha deciso di muovere guerra all'Austria per conquistare la leadership della confederazione germanica e porsi a capo dell'unificazione tedesca, e con il trattato di giorno 8 ha stretto alleanza con l'Italia, che rivendica per sé - in caso di vittoria - l'agognata Venezia. Garibaldi è coinvolto nelle operazioni: gli si affidano 10 battaglioni di volontari, per un totale di 30.000 uomini che per la prima volta avevano come divisa ufficiale la camicia rossa. Il generale segue la preparazione dei corpi militari da Caprera, felice perché convinto che il suo sogno stia per avverarsi. La realtà, comunque, delude in fretta le sue aspettative: le armi sono scadenti, il vestiario insufficiente, e soprattutto il territorio che gli viene assegnato, il Trentino, è un campo d'azione marginale. Anche la strategia dell'esercito, agli ordini di La Marmora e Cialdini, è di tipo meramente difensivo, tanto che solo un terzo dei garibaldini sono posti effettivamente in ordine di combattimento. A metà giugno si aprono le ostilità: il 24 le divisioni di La Marmora incontrano le truppe austriache e, dopo uno scontro confuso e disorganizzato, sono costrette ad indietreggiare senza che i corpi al comando di Cialdini intervengano a loro sostegno. Garibaldi, che intanto ha consolidato importanti posizioni, è chiamato a coprire Brescia, e costretto ad abbandonare le sue conquiste. Nei giorni successivi si riorganizza l'esercito: al generale vengono inviati dei rinforzi, presto lanciato nelle battaglie di Monte Suello e Valcamonica, del 3 e 4 luglio. Entrambe si risolvono in un fallimento. Giuseppe non demorde, comunque, e riesce a riportare due vittorie significative, a Condino e Bezzecca. Serve a poco, però: l'esercito italiano, intanto, è stato sconfitto pesantemente a Lissa e Custoza, e solo la Prussia è riuscita a costringere alla resa gli austriaci. «Obbedisco», risponde il generale quando La Marmora gli ordina di lasciare il Trentino. La liberazione del Veneto avviene, così, in un modo troppo diverso da come Giuseppe l'aveva sognato, privo dell'affermazione delle forze popolari e della dimostrazione del valore militare della nuova Italia.
Il Corpo dei volontari viene sciolto, l'eroe torna a Caprera, da semplice cittadino. Lo tormenta, però, il pensiero di Roma, la meta più alta per la realizzazione dell'unità nazionale: pensa che il riscatto, suo e dei suoi uomini, possa venire da lì. Poco dopo, dalla città eterna un gruppo di radicali, alla partenza degli ultimi reparti dell'esercito francese, prega Garibaldi di riprendere le armi per mettersi alla testa di un moto insurrezionale. È il segnale che attendeva! Il 22 marzo riassume l'ufficio di generale, conferitogli dalla Repubblica romana nel '49, e fonda a Firenze un Centro dell'Emigrazione, con il compito di organizzare la resistenza armata. Già a giugno, da Terni, una banda di circa 100 volontari si mette in moto per invadere l'Urbe, ma il tentativo - disorganizzato e privo di altri appoggi - si conclude con la dispersione e l'arresto degli insorti. Il governo ed il Parlamento non possono non essere a conoscenza di quello che sta accadendo, così ordinano all'esercito di impedire qualsiasi ulteriore tentativo di invasione. Giuseppe non si scoraggia. Non retrocede nemmeno quando la stampa democratica avversa il tentativo di Terni, nè quando Mazzini si dissocia violentemente dall'organizzazione. Anzi, manda Francesco Cucchi a Roma per preparare il moto, Giovanni Acerbi al confine del Lazio, Menotti nel Mezzogiorno per l'invasione del Sud: il punto d'incontro viene fissato a Viterbo. Il 23 settembre il generale parte da Firenze alla volta del confine, ma già l'indomani è arrestato, insieme ai suoi ufficiali, a Sinalunga, e condotto in una fortezza vicino Alessandria. L'impressione è enorme. Un ufficiale italiano si reca a trovarlo e gli offre la libertà, in cambio della promessa di ritirarsi a Caprera. Giuseppe si rifiuta di promettere, così viene rilasciato senza condizioni, col solo, vago impegno di desistere dalla spedizione. Si tratta di una messinscena: l'organizzazione del moto continua, anche grazie agli incitamenti che di nascosto il generale invia ai volontari: il 3 ottobre Menotti entra in territorio pontificio con 20 uomini, e contemporaneamente anche Acerbi e Nicotera si dirigono verso Roma. Garibaldi, intanto, lascia Caprera con una fuga rocambolesca, e la mattina di giorno 20 può finalmente giungere a Firenze, tra l'acclamazione della folla. Si porta a Terni, e da lì, il 23, raggiunge Passo Corese, dove è stato fissato il quartier generale delle operazioni. Ha circa 8.000 uomini ai suoi ordini. Sulla strada per Roma, prova a conquistare di sorpresa la cittadina di Monterotondo, che sta su un'altura, protetta da imponenti fortificazioni. L'attacco avviene nella notte del 24, e si protrae fino all'alba. La tattica è quella tipica delle battaglie garibaldine: un attacco impetuoso e continuo, che non si cura delle perdite e non prevede strategie difensive. Stavolta, però, il valore dei combattenti s'infrange contro l'ottima posizione dei nemici, che dall'alto riescono a indirizzare il fuoco con estrema precisione, falcidiando le truppe garibaldine. Il generale, a quel punto, decide di ricorrere all'espediente di incendiare una porta per far irrompere i suoi uomini dentro le mura: conquista la posizione, ma deve dedicare tre giorni a riordinare le forze. Attende dei rinforzi che non arrivano, e intanto il morale delle guarnigioni è in discesa a picco. Qualcuno diserta, altri non hanno nemmeno la forza di imbracciare le armi. Decide allora di spostarsi a Tivoli, nella speranza di trovare le risorse necessarie a prolungare la guerriglia: parte il 3 novembre, alla testa dei volontari rimasti, circa 4.500. A Mentana, la marcia è intercettata da un corpo di legionari pontifici e soldati francesi di quasi 10.000 unità. Divampano i combattimenti. La forza dei garibaldini soccombe all'efficiente macchina bellica dei nemici. L'eroe cede. Una parte dei volontari si ritira su Monterotondo, i restanti - 1.500 intrepidi - resistono ancora un giorno prima di arrendersi. Roma è di nuovo sotto il presidio francese.
Garibaldi parte in treno per Firenze. Viene arrestato a Figline e rinchiuso nel Varignano il 5 novembre.

A.F.