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Gli ultimi anni

Dopo la sconfitta di Magenta, Garibaldi sembra un uomo finito. Il tempo delle speranze è finito, e anche la forma fisica sembra averlo abbandonato. Il romanziere polacco Jòsef Ignacy Kraszewski, che va a visitarlo a Caprera alla fine del 1869, si lascia andare ad una desolante descrizione: «la salute del vecchio è già rovinata e i medici non gli assicurano un lungo soggiorno tra i vivi. Sta a letto da più di un mese, le mani sono rattrappite dalla paralisi, il viso è pallido come carta trasparente, le gambe gonfie [...]. Intorno a sé, purtroppo, vede solo un deserto».
L'occasione per il riscatto, comunque, sta per arrivare: nel luglio del 1870 Napoleone, strategicamente provocato da Bismarck, dichiara guerra alla Prussia, e chiede immediatamente l'aiuto dell'Austria, la quale pone come condizione di intervento che anche l'Italia entri a far parte dell'alleanza. Vittorio Emanuele vorrebbe scendere in campo senza indugi, ma il governo decide di chiedere come contropartita il ritiro delle truppe da Roma, che l'imperatore si rifiuta di accordare. Le truppe francesi si dimostrano in fretta nettamente inferiori a quelle prussiane, e già il 2 settembre Napoleone viene sconfitto a Sedan e fatto prigioniero. Il 4 settembre Parigi proclama la Repubblica. Le truppe di stanza nei domini pontifici vengono richiamate in patria, e Vittorio Emanuele invia un delegato a Roma per spingere Pio IX ad accettare l'occupazione: al rifiuto del Pontefice, l'esercito italiano penetra nel Lazio e il 20 settembre, attraverso la breccia di Porta Pia, entra nell'Urbe.
Il tempo della rassegnazione è finito: Garibaldi il 7 ottobre si reca a Marsiglia, e il giorno dopo è a Tours, che in quel momento è la capitale provvisoria della Francia. Qui incontra Leon Gambetta, l'animatore della resistenza d'oltralpe, che gli offre il comando di alcune centinaia di volontari a Chambéry. Giuseppe medita di far ritorno a Caprera: quell'incarico gli pare troppo misero, e l'impressione è quella che Gambetta stia solo cercando di sfruttare il suo nome. È allora che il patriota francese si decide ad affidargli il comando di tutti i corpi franchi dei Vosgi e di una brigata di guardie mobili. Garibaldi accetta.
L'entusiasmo iniziale, però, scolora ben presto nell'amarezza: gli armamenti sono scarsi, il clima troppo rigido, l'addestramento militare poco preciso. In quella situazione, persino per il generale è difficile organizzare una strategia efficace: più di una volta i corpi garibaldini sono esposti al fuoco nemico, e rischiano di soccombere. Intanto, la guerra volge al termine. Il 29 gennaio si conclude un armistizio di tre settimane, da cui viene escluso il fronte dei Vosgi. Garibaldi, in questo modo, si trova esposto all'attacco di forze nettamente superiori e meglio attrezzate, e per di più nell'impossibilità di ricevere rinforzi. Il 31 gennaio viene aggredito, e decide di trasferire i suoi uomini nella zone protetta dall'armistizio. Di lì a poco viene firmata la pace: anche quell'occasione di riscatto è naufragata nel mare della disillusione.
Gli ultimi anni della sua vita, Garibaldi li passa a Caprera, dove alle battaglie militari si sostituisce la sua lotta all'artrite e agli acciacchi. Nonostante le precarie condizioni di salute, la sua vita sentimentale ha una scossa: nel 1865 il condottiero conosce Francesca Armosino, che gli darà Clelia, nel 1867, Rosa nel '69 e Manlio nel 1873 e diverrà sua sposa nel 1880.
Giuseppe, in quegli anni, dedica gran parte del suo tempo alla scrittura, e pubblica diversi romanzi storici: Clelia e Cantoni il volontario nel 1870, le Memorie tra il 1871 e il 1872. Per l'opera I Mille, invece, è difficile trovare un editore, mentre anche i romanzi editi non danno però il riscontro economico sperato.
Nel 1882 è in Sicilia per le celebrazioni del VI centenario dei Vespri, nonostante la salute malferma e le opposizioni a quel viaggio da parte dei familiari. Quel viaggio lo ricarica, ma al ritorno a Caprera le sue condizioni peggiorano improvvisamente: il 2 giugno si spegne, poco dopo l'alba, attorniato dalla moglie Francesca e dal figlio Menotti.
La Camera delibera il lutto per due mesi, e concede una pensione alla vedova e ai figli, mentre si assume le spese per i funerali e per l'erezione di un monumento a Roma.
In molte città i negozi restano chiusi e le amministrazioni deliberano di intitolare all'eroe strade, edifici, monumenti e onoranze. Messaggi di cordoglio arrivano da ogni parte del mondo, e come scrive Victor Hugo, «non è in lutto l'Italia, non la Francia, ma l'umanità».
Intanto, si decide sui funerali: Garibaldi ha pensato per tempo alla sua morte, chiedendo di essere cremato. Questo, però, suscita l'opposizione delle autorità e della stessa Chiesa, tanto da convincere la famiglia a desistere. I funerali acquistano la forma solenne di una manifestazione ufficiale, un vero e proprio rito laico di celebrazione nazionale. Mentre le sue spoglie si dirigono verso il Gianicolo, e il suo mito è già epopea, sulla casa di Caprera un forte vento soffia su un tricolore, quasi a ricordare l'ideale a cui Giuseppe aveva votato l'esistenza.

A.F.

Clicca qui per leggere il poema in dieci canti Giuseppe Garibaldi, di Niscastro Mogavero, Palermo 1869.