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ANTONIO MORDINI (Barga, 1 giugno 1819 - Montecatini Valdinievole, 15 luglio 1902)

Avvocato mazziniano e repubblicano, nel 1847 partecipò ai moti di Firenze che costrinsero nel mese di settembre il granduca di Toscana a istituire una Consulta di Stato e una Guardia civica, nell'ambito di quel processo riformatore che era stato avviato dall'ascesa al soglio pontificio del cardinale Giovanni Mastai Ferretti con il nome di Pio IX. Nel '48 Mordini prese parte alla I guerra di indipendenza combattendo nel Veneto, da capitano della guardia civica, contro le truppe austriache nella legione padovana. Ma, giunto a Venezia ebbe dei contrasti con il capo dei democratici Daniele Manin, contrario all'intesa con il Piemonte che invece Mordini caldeggiava per rafforzare la rivolta antiaustriaca. Manin quindi lo espulse dalla Repubblica veneta e Mordini decise di continuare la propria lotta in Toscana dove, alla fine di ottobre, il granduca era stato costretto dalla pressione popolare a costituire un governo democratico con a capo Giuseppe Fontanelli e Francesco Domenico Guerrazzi. In questa occasione Mordini ebbe l'incarico di ministro degli Esteri e della Guerra. Dopo il fallimento dei moti e la fine della Repubblica toscana (nata nel febbraio del '49 dopo la fuga di Leopoldo II), Mordini andò in esilio prima a Genova e poi a Londra dove fece parte del Comitato nazionale italiano. Cominciò però allora un lento distacco da Mazzini e dalla Giovine Italia che lasciò definitivamente dopo la fallita insurrezione di Genova del 1857, convinto che il movimento democratico, sebbene ancora forte di un ampio sostegno popolare, fosse ormai privo di una guida effettiva. Nel 1859 partecipò alla II guerra di indipendenza combattendo in Lombardia. Dopo l'armistizio di Villafranca venne eletto deputato all'assemblea toscana, dopo che, alla fine dell'aprile 1859, una serie di insurrezioni nelle principali città toscane aveva costretto alla fuga il granduca. Da deputato si fece promotore di una rapida annessione della Toscana al Piemonte, che fu sancita dal plebiscito del marzo 1860.
Eletto deputato nel parlamento subalpino si recò a Palermo subito dopo la spedizione dei Mille e fu nominato a capo del Tribunale di Guerra. In quella occasione acquisì una dettagliata conoscenza delle campagne siciliane e stabilì dei contatti con i notabili locali che gli risultarono utili qualche mese dopo quando assunse la carica di prodittatore, dopo le dimissioni di Depretis avvenute alla metà di settembre. Il suo compito era quello di attuare l'annessione della Sicilia al regno sabaudo ma nelle poche settimane in cui fu prodittatore, Mordini emanò anche alcuni importanti decreti come quello sulla abolizione delle decime personali e quello sulla censuazione dei beni ecclesiastici (che però non venne attuato a causa della abolizione della prodittatura seguita al plebiscito). Egli era convinto che un'amministrazione efficace poteva restaurare l'ordine nell'isola senza bisogno di affidarsi all'esercito piemontese o all'annessione immediata. Tentò quindi di fare dell'entusiasmo per Garibaldi e di un nuovo programma di riforme la base del suo governo, dimostrando così che un sistema democratico di governo era in grado di funzionare quanto uno più autoritario. A suo parere il ricorso a mezzi coercitivi metteva in evidenza l'isolamento del governo e l'uso della forza militare significava ammettere la propria incapacità di governare mediante il consenso e con misure normali. Ai primi di ottobre il consiglio dei ministri della prodittatura, nel quale Francesco Crispi assunse l'incarico di segretario degli Affari di Sicilia e di ministro degli Esteri, decise di indire i collegi elettorali per la elezione dell'assemblea che avrebbe dovuto stabilire le forme dell'annessione. Mordini promulgò quindi il relativo decreto di convocazione della assemblea dei rappresentanti del popolo siciliano per il 4 novembre, convinto di potere in questo modo evitare la spedizione armata che si supponeva meditata da Cavour per riportare in Sicilia Depretis come commissario regio. Ma, a quel punto, il prodittatore di Napoli, Giorgio Pallavicino, riuscì a strappare a Garibaldi il consenso a far votare nelle province meridionali continentali l'annessione incondizionata per plebiscito. L'11 ottobre il parlamento di Torino autorizzò il governo ad accettare le annessioni delle province meridionali e di altre parti d'Italia solo a condizione che fossero incondizionate e votate con suffragio popolare diretto, cioè mediante plebiscito. Il 13 ottobre Garibaldi decise di lasciare i prodittatori liberi di agire come meglio credessero ciascuno per proprio conto e il 15 firmò il decreto di anticipazione dei plebisciti al 21 ottobre. Mordini si uniformò alla decisione del generale e stabilì per la Sicilia la stessa procedura del Mezzogiorno continentale: il 21 ottobre i siciliani avrebbero votato non più per eleggere una assemblea incaricata di definire tempi e modi dell'annessione, ma per votare col plebiscito l'unione incondizionata all'Italia, con re costituzionale Vittorio Emanuele. Con un decreto del 19 ottobre, però, per salvaguardare il diritto dei siciliani di manifestare il loro pensiero in ordine all'annessione, Mordini istituì un Consiglio straordinario di Stato, composto da 37 membri di nomina prodittatoriale, che si sarebbe dovuto riunire subito dopo la proclamazione dei risultati del plebiscito per esporre al governo i modi nei quali conciliare i bisogni peculiari della Sicilia con quelli generali della nazione. Il 21 ottobre anche in Sicilia si tenne il plebiscito e da quel momento ebbe fine la dittatura di Garibaldi mentre la prodittatura di Mordini ebbe ufficialmente termine a dicembre. La sua amministrazione, per quanto breve, si conquistò lodi per l'efficienza, l'onestà e l'apertura dimostrate.
Nel 1862 Mordini ritornò in Sicilia, insieme ad altri deputati vicini a Garibaldi (Nicola Fabrizi, Giuseppe Cadolini e Salvatore Calvino), che incontrarono il generale a Regalbuto dove cercarono di dissuaderlo dall'intraprendere la spedizione verso Roma. Nonostante avessero cercato di fermare Garibaldi, qualche giorno dopo, La Marmora fece arrestare Mordini e gli altri deputati mentre si trovavano a Napoli, con l'accusa di aver provocato disordini. A nulla valsero le proteste di tanti deputati che invocavano l'immunità parlamentare e Mordini e i suoi amici rimasero in prigione per oltre un mese. Ritornato in parlamento, Mordini presentò una interpellanza sui fatti di Aspromonte che determinò la caduta del governo. Nel 1864 fu uno dei deputati dell'opposizione che votarono con il governo a favore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze. A partire dalla seconda metà degli anni '60 Mordini si avvicinò alla Destra e nel biennio 1867-69 fu ministro dei Lavori Pubblici. In questa occasione Mordini ebbe modo di collaborare spesso con il prefetto di Palermo, Giacomo Medici per accelerare il processo di realizzazione delle infrastrutture nell'isola. Negli anni 1872-76, da prefetto di Napoli, dovette affrontare i problemi posti dal banditismo, dalla mafia e dalla agitazione politica dei membri dell'Internazionale socialista. Dopo l'incarico di prefetto ricoprì nuovamente la carica di deputato fino al 1895 e di senatore dal 1896 fino alla morte avvenuta a Montecatini Valdinievole il 15 luglio del 1902.

G.P.


Principale bibliografia di riferimento:
- AA. VV., La Sicilia e l'Unità d'Italia, Atti del Congresso Internazionale di Studi Storici sul Risorgimento italiano (Palermo 15-20 aprile 1961), Milano, Feltrinelli, 1962;
- Alatri P., Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra (1866-1874), Torino, Einaudi, 1953;
- Renda F., Storia della Sicilia, vol. III, Dall'Unità ai giorni nostri
, Palermo, Sellerio, 2003;
- Riall L., La Sicilia e l'unificazione italiana. Politica liberale e potere locale (1815-1866), Torino, Einaudi, 2004;
- Scirocco A., Il Mezzogiorno nell'Italia unita (1861-1865), Napoli, SEN, 1979.