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La Legazia Apostolica: Garibaldi "papa" nel giorno di Santa Rosalia

Da I Mille di Marsala. Scene rivoluzionarie, di G. Oddo, Milano 1863, pp. 564-568

«Di un'altra scena rivoluzionaria dobbiamo ora intrattenere i nostri lettori, i quali ci permetteranno una breve digressione sopra privilegi e tradizioni religiose di Palermo e della Sicilia.
Celebri sono in Palermo le feste di Santa Rosalia, patrona della città. Durano cinque giorni, dall' 11 al 15 di luglio. Nel primo giorno un carro trionfale altissimo, da Porta Felice in riva al mare monta verso Porta Nuova all'altro estremo della città, percorrendo tutta la via di Toledo. Per quattro giorni fuochi artificiali, corse di cavalli, illuminazione che abbaglia in Toledo, alla Villa, alla Marina, dappertutto. Tutta questa festa che attira tanti curiosi alla capitale finisce il quarto giorno con un vespro nella Cattedrale, e l'indomani verso mezzogiorno con la celebrazione della così detta Cappella Reale, a cui succede la grande processione della vergine patrona, nella quale alla statuetta della Santa, sormontata su una grande cassa d'argento massiccio, adorna di statuette e di rabeschi di finissimo lavoro, precedono statue infinite di altri santi, e poi certi tempietti ambulanti entro cui sono figurate storie della Bibbia o delle sacre leggende, e poi bare d'ogni maniera di costruzione.
Ultima viene la statua di santa Rosalia, che per antica tradizione non può essere trasportata che da soli fabbri, o costruttori di edifici.
Nel luglio del 1860 queste feste non ebbero luogo, per la eccezionalità dei tempi, per le rovine della città, e per non dar luoghi a disordini, facili tanto in tempi rivoluzionari. Ma la popolazione volle assolutamente celebrata la Cappella reale, solennità che si ripete in Palermo due volte all'anno, nella festa di santa Rosalia ed in quella dell'Immacolata Concezione. Questa Cappella reale importa che il sovrano di Sicilia interviene alla messa solenne qual legato apostolico del papa.

Nella cristianità cattolica non hanno questo privilegio che il sovrano di Ungheria e quello di Sicilia; in virtù di questo privilegio, il re, in Sicilia, è Papa e ne ha varie attribuzioni. Tutti i Corpi, che in virtù delle costituzioni pontificie altrove dipendono dal Papa, in Sicilia in molte cose dipendono dal re; quindi i conventi dei frati e delle monache, che altrove son corpi dipendenti solamente dal pontefice, in Sicilia dipendono unicamente dal re. Molte delle attribuzioni che altrove i papi hanno sopra i vescovi e gli arcivescovi in Sicilia appartengono al sovrano; e gli appelli dei giudicati delle curie arcivescovili e vescovili che altrove si portano alla magna curia di Roma, in Sicilia sono portati al re, e per lui, ad un giudice che ei destina e nomina, chiamato giudice della Monarchia o della legazione apostolica.
Di più, il sovrano di Sicilia, in virtù delle regalie sue proprie e del patronato regio, che ha su tutte le chiese, è consideralo come il padrone di tutti i beni della Chiesa siciliana; in vigore della legazione apostolica che possiede sino dal secolo XII, è signore dei beni, e di più, arbitro e giudice di tutto, ciò che si attiene alla disciplina, ai diritti dei monaci e dei preti, e tutte quelle altre attinenze che per dispense, matrimoni e cose simili, possono i privati avere con la curia romana.
Ora nella celebrazione della Cappella reale il re o chi lo rappresenta interviene ed assiste alle cerimonie sacre col carattere di legato apostolico. Benché in chiesa, anche l'arcivescovo in quella cerimonia è meno del re, quindi l'arcivescovo siede sotto piccolo baldacchino e su uno scanno basso, mentre il re, nel coro, accanto all'altare maggiore sta sopra alto trono, e intorno a cui i dignitari della Chiesa, non escluso lo stesso arcivescovo, s'inchinano dinanzi a lui come dinanzi al Papa.
Nella celebrazione della Cappella reale, da secoli vi ha un cerimoniale stabilito. Tutti i grandi di corte, la magistratura, tutte le supreme autorità intervengono; il re sta seduto; a dati punti si alza; dopo il vangelo e dopo il credo si pone il cappello in testa, e l'arcivescovo gli dà l'incenso.
Era il tu luglio 1860; la Sicilia non aveva più re; neppure chi lo rappresentasse. La Sicilia aveva un dittatore, e questi dicevasi rappresentante di Vittorio Emanuele, in nome del quale governava l'Isola. A Garibaldi adunque toccava in quel giorno, sacro alla Patrona di Palermo, funzionare da legato, da Papa dell'isola di Sicilia.
La solennità era fissata per le 11 del mattino. Fino dalle 9 la Guardia nazionale accorsa tutta, schieravasi innanzi alla cattedrale; più tardi giungevano le guardie dittatoriali; si disposero in doppia ala nella grande navata del magnifico tempio. Il corpo municipale della città, poco dopo le 10, andava al palazzo reale, preceduto dalle sue guardie a cavallo, accompagnato da trombe, tamburi e timpani.
Il senato apparve, secondo l'antico uso, abbigliato alla spagnuola, con toghe di seta nera, e maniche e collaretti bianchi ricamati in oro. Esso stava nelle due sue carrozze, grandi, dorate, sormontate da pennacchi bianchi e dall'aquila romana di bronzo dorato, in atto di volare. Il senato andava al palazzo per prendere il Dittatore; l'arcivescovo e i dignitari della Chiesa aspettavano con l'aspersorio e con l'ombrellino rosso che Garibaldi arrivasse.
Ma Garibaldi alle 10 trovavasi al molo ad imbarcare soldati che partivano alla volta di Barcellona; alle 11, vestito della sua solita camicia rossa, col suo solito cappello alla calabrese, col suo foulard a cappuccio, entra in vettura e diritto pel Cassero recasi alla cattedrale. Il suo arrivo è annunciato dagli applausi e dagli evviva del popolo immenso, che affollavasi nelle vicinanze del tempio; la banda militare suona l'inno del liberatore, la Guardia nazionale presenta le armi; l'arcivescovo e i dignitari corrono dalla porticciuola dell'arcivescovado alla porta maggiore della cattedrale. Garibaldi smonta, l'arcivescovo e i dignitari si genuflettono; Garibaldi sorride, e sotto l'ombrello rosso, guidato
 



La Legalizia Apostolica

dall'arcivescovo al grande altare, è condotto al trono. Il Dittatore monta, si asside alto su tutte le potestà ecclesiastiche ivi convenute, ed eseguendo esattamente il cerimoniale, assiste alla messa solenne. Il senato, i segretari di Stato che aspettavanlo al palazzo, accorrono al tempio, compiono il corteggio e la pompa della solennità.
Al fine della messa, Garibaldi ritorna, ma questa volta il senato lo prende nella sua aurea carrozza. I senatori in grandi abiti talari entrano in carrozza con lui, e gli si siedono in faccia; Garibaldi siede solo nel sedile di onore. Il popolo lo vede passare, e grida ed applaude, e leva al cielo mille e mille evviva al grande figlio d'Italia che ritorna alla sua camera da soldato per continuare, dopo le funzioni religiose, le sue operazioni e le sue cure di guerra.
Tra le scene rivoluzionarie che andiamo trattando, questa di certo non è l'ultima nella bizzarria e nella singolarità. Garibaldi, nemico della potenza clericale, perché usata a mal fine; nemico del Papa-re, perchè impaccio grandissimo all'attuazione dell'unità italiana; nemico della corte pontificia già dichiarata avversaria del progresso e delle riforme politiche; Garibaldi, il 15 luglio, nel maggior tempio di Palermo, erasi assiso da papa sopra un trono magnifico, incensato dal clero, dall'arcivescovo, e come papa venerato! Eppure; mai forse su quel trono sedettero anime più pure, coscienze più sublimi. Un re che fa da papa significa il mostruoso connubio della forza e dell'altare; ma quando è il figlio del popolo, l'incarnazione dei diritti del popolo, il rappresentante vero delle aspirazioni nazionali che fa da papa, allora il connubio è tra l'altare ed il diritto, tra la religione e la ragione, tra il vangelo ed il progresso.
Per tutta Palermo si parlò quel giorno e nei dì susseguenti di Garibaldi papa, e della strana combinazione della Cappella reale del 15 luglio».