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Il piccolo garibaldino

Prodotto dalla Cines nel 1909, perduto e poi ritrovato, il film è stato oggetto, in occasione del bicentenario della nascita di Garibaldi, di un sofisticato lavoro di restauro da parte del Centro sperimentale di cinematografia-Cineteca nazionale che ne ha permesso la digitalizzazione e una nuova fruizione. E' stato possibile così confermare il ruolo centrale che il cinema muto italiano, in piena età giolittiana, svolse in funzione del processo di nazionalizzazione della masse.
Il piccolo garibaldino, infatti, già a partire dal titolo stesso, si ascrive all'ampia produzione cinematografica dedicata ad un Risorgimento depurato dal suo «valore simbolico e politico», rispondente ad un preciso progetto pedagogico ed educativo di cui il grande schermo sembrò essere lo strumento migliore per la diffusione, insieme con la scuola. Finalità del progetto, di ispirazione massonica, quella di suscitare nelle nuove generazioni, non coinvolte direttamente nel processo ottocentesco di costruzione dello Stato italiano, quella che è stata definita «una mistica parareligiosa intorno al concetto di patria», anche attraverso il recupero, su un piano laico, del linguaggio iconico e verbale della simbologia cristiana (Giovanni Lasi, Irele Nuñez). Al suo centro «l'individuo, la famiglia, la nazione» ma anche il recupero del mito di Garibaldi, dell'eroe senza macchia e senza peccato, «poco incline al compromesso» e alla beghe politiche.
Della pellicola, di cui non è possibile stabilire la lunghezza originaria a causa di vari tagli nei quadri e nelle didascalie che lo compongono, non si conosce il regista, sebbene sia stato identificato in Mario Caserini l'attore che interpreta il padre; in sua moglie, l'attrice Maria Gasperini, uno dei personaggi femminili secondari, in Gemma De Ferrari l'attrice nel ruolo della madre. Si registra invece una forte somiglianza nei contenuti e nell'intreccio col romanzo Il piccolo garibaldino di Giuliano Masè pubblicato però solo nel 1910, probabilmente perché entrambi ispirati ad una stessa fonte precedente, «un racconto, una pièce teatrale o una canzone» che avrebbe potuto celebrare la reale presenza tra le fila dei garibaldini di un padre e di un figlio, Luigi Giuseppe Marchetti e Giuseppe Marchetti (motivo questo che tornerà anche nel più famoso 1860 di Alessandro Blasetti).
Il protagonista della storia è, infatti, un giovanissimo patriota che di nascosto dalla madre fugge da casa per raggiungere, in Sicilia, il padre garibaldino già partito alla volta di Marsala, dopo aver ricevuto con i tutti gli altri commilitoni la solenne benedizione di un sacerdote. Prima di andare via, però, mentre le scrive una struggente lettera di commiato, si addormenta sullo scrittorio. Sogna Garibaldi, il campo di battaglia, la gloria della vittoria.
Si imbarca, quindi, da clandestino su un bastimento diretto a Quarto, dal nome emblematico: "Sicilia-Siracusa", aiutato nella sua impresa dai marinai che condividono il sogno di un'Italia unita. Riesce a sbarcare sulle coste dell'isola e a raggiungere il padre presso l'accampamento dei garibaldini acquartierati in attesa del loro primo scontro con l'esercito borbonico.
Insieme prendono parte alla battaglia di Calatafimi, ma il piccolo eroe viene ferito a morte. Prima di esalare l'ultimo respiro tra le braccia del genitore, può però realizzare il suo desiderio di morire vicino a Garibaldi. Il generale nizzardo, su un cavallo bianco, sosta per un attimo accanto a lui, prima di proseguire oltre.
Il quadro finale vede in primo piano la madre, vestita di nero, accorata e affranta che stringe al seno un ritratto del figlio. In una sorta di sogno-visione il ragazzo le appare ai piedi di una scalinata in cima alla quale troneggia una giovane donna con in mano il tricolore, allegoria della patria e dell'Italia. Il piccolo garibaldino mostra alla madre la ferita provocatagli dal proiettile che l'ha ucciso, la incoraggia a non piangere per lui perché egli è caduto "da soldato" e, dopo averla abbracciata, si avvia sulla scala per prendere posto accanto alla donna, in un nuovo Pantheon della nazione che, come ha osservato Giovanni Lasi, non è più abitato dai suoi padri fondatori (Garibaldi, Crispi, Vittorio Emanuele II, Cavour) come nel film di Filoteo Alberini, ma piuttosto da giovani martiri sconosciuti che con il loro sacrificio e il loro sangue ne resero possibile l'edificazione.

T.G.