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La battagglia di Milazzo

«Fu un'ora terribile quella dalle 11 alle 12. I soldati non erano avviliti, ma stanchi, arsi dal sole cocentissimo di luglio di quelle regioni caldissime? assetati, affamati, rabbiosi. Eppure non un lamento; in tutti la ferma volontà di vincere o morire». Il diario del volontario bergamasco Antonio Binda, dalle cui pagine è tratta questa frase, si riferisce alla battaglia di Milazzo, combattuta il 20 luglio 1860 dentro l'afa asfissiante di un'estate siciliana e divenuta in fretta l'ennesima prova dell'inadeguata risposta borbonica al dilagare dei Mille sull'isola.

Un fatto della battaglia di Milazzo
Un fatto della battaglia di Milazzo

Di certo, i tentativi di ribaltare le sorti della guerra non erano mancati: il 14 luglio, infatti, il generale Clary, senza nemmeno avvertire il nuovo ministro della guerra, Pianell, aveva ordinato al colonnello Bosco di muovere verso Milazzo con 3 battaglioni scelti di Cacciatori - circa 3.000 uomini - per garantire la piazza da un possibile blocco da terra. L'audacia del generale, tuttavia, non si era spinta fino alle estreme conseguenze, e gli ordini dati al colonnello erano stati chiari: avrebbe dovuto tenersi sulla difensiva e attaccare solo se assalito, ma senza spingersi, per nessuna ragione, oltre Barcellona.
Nella cittadina, intanto, il 16 luglio era giunta la truppa volontaria al comando del generale Medici, che - almeno nei piani di Garibaldi - avrebbe dovuto occupare Castroreale (8 km più a sud), e lì restare in attesa di nuovi ordini. Forse era stata l'accoglienza ricevuta in città, festosa come solo l'arrivo di un liberatore può esserlo, forse era stato il desiderio di andare oltre, per essere ancora più protagonista degli eventi: il Medici, con un gesto inaspettato, aveva deciso così di non abbandonare Barcellona, e di spingersi addirittura qualche km più a nord, fino al piccolo centro di Meri. Proprio qui, quello stesso giorno, era giunto anche il colonnello borbonico Bosco, con i suoi 3 battaglioni. Le truppe erano state costrette a fronteggiarsi, non sapendo bene cosa fare dei nemici. Bosco, tuttavia, sentiva ancora nelle orecchie la voce stentorea di Clary, che ordinava di non attaccare per primo: con un po' di amarezza nello sguardo, si era visto quindi costretto a chiedere ai suoi di rimangiarsi la voglia di mostrare ai filibustieri quale tempra potesse animarli, e di ripiegare a destra, in direzione di Milazzo.
Medici, da parte sua, non aveva nessun ordine di attesa da soddisfare: poteva serenamente avanzare ancora, occupando Corriolo ed Archi e tagliando fuori i borbonici da Messina. Solo a questo punto Bosco si era deciso a fare a modo suo, mandando 4 compagnie con cavalieri e artiglieria, alla testa di Maringh, ad occupare Archi. Nel paesino, il comandante era riuscito a respingere un'intera colonna di garibaldini, ma poi, d'improvviso, aveva deciso di ritornare precipitosamente a Milazzo senza presidiare la posizione conquistata, scatenando le ire di Bosco, che non aveva perso un attimo prima di ordinarne l'arresto. Il colonnello aveva allora deciso di affidarsi al tenente Marra, posto alla testa di 6 compagnie di soldati, che avevano assalito Corriolo scatenando un serrato combattimento con i i garibaldini di Medici. Qualche ora più tardi, dopo che molto sangue era stato versato da entrambe le parti, i borbonici si erano garantiti il possesso di Archi, e i i garibaldini quello di Corriolo: a quel punto, tuttavia, forse mosso da un'irrazionale psicosi nei confronti della forza di Garibaldi, Bosco aveva dato ordine di abbandonare la posizione conquistata e di ripiegare su Milazzo.
Sia Medici che Bosco, quella notte, avevano avvertito l'esigenza di domandare rinforzi: il colonnello regio li aveva chiesti a Clary, che tuttavia, resosi conto dell'irritazione del Ministero di Napoli per quell'insana iniziativa, aveva risposto di non poter soddisfare la richiesta. Medici, dal canto suo, aveva scritto a Garibaldi, annunziando il proprio successo, e ottenendone in cambio un battaglione aggiuntivo di circa 600 siciliani, diretto con volitivo impegno da Alberto Mario. Ma questo non bastava: insieme al battaglione, erano giunti infatti una spedizione di circa 2.000 uomini, provenienti da Genova sotto la giuda di Cosenz, e persino Garibaldi, che aveva voluto scortare personalmente un corpo scelto di carabinieri. Valutando la situazione e scrutando il paesaggio che si parava innanzi ai loro occhi, i generali si erano resi conto che, nel punto in cui la penisola di Milazzo si legava alla terraferma, i borbonici avevano costruito una testa di ponte fortissima. Il terreno, in quel punto, era quanto mai accidentato, rotto com'era da canneti, vigneti, siepi e muretti. Le truppe napoletane avevano dalla loro il vantaggio di una maggior conoscenza del terreno, nonché un numero complessivo di uomini leggermente superiore, che si associava ad una dotazione di armi decisamente più completa. Tutto ciò, ad ogni modo, non era bastato a fiaccare l'ardore garibaldino: all'alba del 20 luglio, i volontari avevano iniziato una lenta ma inesorabile avanzata, che li avrebbe portati ad occupare la località di S.Pietro, procedendo lungo il litorale. A destra, Garibaldi aveva deciso di schierare una colonna guidata da Simonetta, così da tagliare ai regi la strada per Messina. A sinistra, la truppa era invece quella di Malenchini, interamente composta da volontari toscani. Proprio il Malenchini aveva d'un tratto deciso di guidare allo sbaraglio i suoi uomini su per la spiaggia deserta: a quel punto, era venuto il fuoco dei cacciatori napoletani, e la rapida avanzata in direzione della squadra toscana, costretta a retrocedere nonostante il pronto intervento degli uomini di Cosenz. Infine, dopo qualche chilometro, era stato possibile arginare l'offensiva, e Garibaldi aveva potuto dedicarsi a progettare una contromanovra a destra dei borbonici, dove si era già recato il Medici: solo in quel modo sarebbe stato possibile sbarrare definitivamente la strada per Messina.
 

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Il resto delle truppe era giunto quindi al fianco del generale garibaldino, e da lì si era lanciato in una lenta marcia, che aveva portato alla conquista di un cannone borbonico, senza che il Bosco potesse impedirlo. All'incontro dei due eserciti, aveva avuto il via la battaglia: dura, aspra, insopportabilmente lunga e difficile, resa più pesante dal caldo di un luglio bollente. I borbonici, in confidenza con la vegetazione del posto, avevano trovato velocemente riparo fra i canneti, negli anfratti, negli interstizi fra i muretti. I garibaldini potevano far fuoco solo quando riuscivano a scorgere i nemici: così il combattimento si era fatto spezzato, frammentario, lasciato in mano all'iniziativa dei singoli. Pian piano, la destra garibaldina era riuscita ad avanzare fino a spingere la truppa napoletana in prossimità dell'istmo di Milazzo: in quel punto, due cannoni stavano alla testa di due strade che scorrevano in parallelo per un pezzo, e si accostavano poi allo sbocco di un ponte. Garibaldi si era scagliato incontro alle truppe nemiche, riuscendo a conquistare un cannone, ma subito Bosco aveva spedito un drappello di cavalieri con la missione di recuperarlo. Era allora che i volontari siciliani si posizionavano lungo gli argini della strada, aprendo il fuoco contro i napoletani costretti a indietreggiare verso il ponte. Solo due uomini erano rimasti al centro della strada; erano Garibaldi ed il suo aiutante, Missori: in fretta, erano divenuti i bersagli della cavalleria borbonica, che si era gettata con foga su di loro. Pur se armati solo di sciabole, e a piedi, i due avevano saputo respingere abilmente l'attacco, rendendo possibile la definitiva conquista del ponte.
I pericoli, comunque, non erano finiti: i cannoni del Castello si erano improvvisamente animati, facendo piovere granate tutt'intorno alle squadre, mentre i cacciatori avevano sparato, asserragliati nelle case vicine e nei dintorni della porta di Milazzo. La resistenza garibaldina si era però protratta, immobile, per altre due ore, dopo di che il dittatore aveva deciso di tentare il tutto per tutto, conquistando la destra borbonica che premeva contro la colonna Cosenz. Proprio allora era giunta la prima nave da guerra borbonica passata in mano ai garibaldini, ribattezzata Tukory e dotata di ben 10 cannoni. Mentre la battaglia si era spostata in prossimità delle acque tirreniche, Garibaldi era salito a bordo del vascello e lo aveva condotto a battere di fianco l'ala destra borbonica. Questa, allora, aveva iniziato la ritirata, incalzata ormai da Cosenz.
Alle quattro del pomeriggio, dopo 8 ore di lotta ininterrotta, tutte le forze regie si ritiravano nel castello. La battaglia era costata circa 150 morti ai napoletani e ben 800 ai garibaldini .
Arroccate nella fortezza, le truppe borboniche avrebbero potuto resistere ancora a lungo, anche grazie alla protezione di 40 cannoni e di mura solide e spesse. Tuttavia, nessuno aveva pensato a rifornire il castello di viveri ed acqua, e la truppa, devastata dal combattimento di quel giorno, rischiava un tracollo fisico e psicologico. Bosco aveva scritto a Clary per spiegare la situazione, e il generale aveva immediatamente convocato un consiglio di guerra per stabilire le sorti di Milazzo. Fino alla fine del consesso straordinario, sembrava deciso che le altre truppe borboniche dovessero recarsi a liberare la fortezza, ma al momento di stilare un piano definitivo, gli orientamenti si erano ribaltati: persino l'ordine di invio di 3 battaglioni, che promanava direttamente da Clary, era stato revocato in fretta e furia dal suo stesso ideatore. A Napoli, Pianell aveva deliberato di spedire un nutrito corpo di spedizione alla volta di Milazzo, ma la flotta si era opposta al loro imbarco, pressando affinché fossero mandate nella Cittadella le sole navi necessarie a prelevare il Bosco con i suoi uomini, e un ufficiale incaricato di stipulare la resa delle truppe.

La presa di Milazzo
La presa di Milazzo

La capitolazione veniva siglata qualche ora più tardi, e prevedeva che le forze borboniche uscissero con le armi e metà dei muli della batteria da montagna, lasciando ai garibaldini l'altra metà dei muli, i cavalli, i cannoni e le munizioni.
L'unica nota stonata, in quel sommesso canto di resa, era quella di Clary, disposto ad accettare quella sconfitta, ma deciso a battersi fino alla morte pur di non ad abbandonare Messina, che restava adesso l'ultima roccaforte borbonica in Sicilia.
S.A.G.


Clicca qui per leggere un racconto coevo della battaglia ad opera di Giuseppe Piaggia.


Principale bibliografia di riferimento:

- Acton H., Gli ultimi Borboni di Napoli(1825-1861), Martello-Giunti, Firenze 1962.
- Battaglini T., L'organizzazione militare del Regno delle Due Sicilie: da Carlo III all'impresa garibaldina, Società Tipografica Modenese ,Modena 1940.
- Boeri G., Crociani P., Fiorentino M., L'esercito borbonico dal 1830 al 1861, SME Ufficio Storico, Roma 1998.
- Buttà G., Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione dal 1860 al 186 1( 1ª edizione 1882), Bompiani, Milano 1985.
- De Cesare R., La fine di un Regno, Lapi, Città di Castello 1909.
- Pieri P., Storia militare del Risorgimento, Einaudi, Torino 1962.
- Zazo A., La politica estera del regno delle Due Sicilie, Tip. Ed. A. Miccoli, Napoli 1940.