Giovedì, 28 marzo 2024
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Kaos

Kaos: regia di Paolo e Vittorio Taviani
Aiuto regia: Roberto Aristarco
Soggetto: dalla raccolta Novelle per un anno di Luigi Pirandello
Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani
Collaborazione sceneggiatura: Tonino Guerra
Interpreti principali:
I Episodio, L'altro figlio: Fioretta Mari (Mariagrazia), Orazio Torrisi (Rocco Trupia, l'altro figlio), Matilde Piana (Ninfarosa) Salvatore Rossi.
II Episodio, Mal di luna: Claudio Bignali (Batà), Enrica Maria Modugno (Sidora), Massimo Bonetti (Saro), Anna Malvica (madre di Sidora).
III Episodio, La Giara: Ciccio Ingrassia (Don Lollò), Franco Franchi (Zì Dima).
IV Episodio, Requiem: Biagio Barone (Salvatore), Salvatore Rossi (il patriarca) Franco Scaldati (padre Scarso), Pasquale Spadola (il barone).
V episodio, Colloquio con la madre: Omero Antonutti (Luigi Pirandello), Regina Bianchi (madre di Luigi), Massimo Bonetti (Saro), Laura De Marchi (madre di Luigi da giovane).
Fotografia: Giuseppe Lanci
Fotografia aerea: Folco Quilici
Montaggio: Roberto Perpignani
Musica: Nicola Piovani, diretta dall'autore
Costumi: Lina Nerli Taviani
Scenografia: Francesco Bronzi
Produzione: FilmTre-Raiuno
Anno di produzione: 1984
Durata: 187' versione televisiva, 157' versione cinematografica

 

Anche di questo film, così come di Bronte di Vancini e de I Vicerè di Faenza, esistono due versioni, una cinematografica  e una televisiva, la prima più breve perché priva dell'episodio Requiem. Il film si compone di cinque episodi (La Giara, L'altro figlio, Requiem, Mal di Luna, Colloquio con la madre) ispirati alle novelle quasi omonime di Luigi Pirandello comprese nella raccolta Novelle per un anno, e introdotti da una lunga sequenza che riprende, ma solo in parte, un'altra novella,  Il corvo di Mìzzaro.
Le prime inquadrature del film si aprono, infatti, su alcuni pastori che hanno appena catturato un corvo, divenuto nelle loro mani oggetto di dileggio e di scherno. Sono interrotti da un altro pastore, che impietosito interviene a liberare la povera bestiola. Dopo avergli legato al collo una piccola campanella, lo lancia in aria e gli grida dietro in modo augurale: Godi. Il corvo si libra alto nel cielo e comincia un lungo volo che guiderà lo sguardo dello spettatore sulle molte Sicilie che i Taviani ci restituiscono, quelle della terra riarsa e del mare, quelle degli olivi saraceni e dei campi di grano, quelle dei templi greci e delle città barocche, delle montagne qui brulle e pietrose lì  soffici e impalpabili di pomice leggera. Il volteggiare del corvo nero e il suono della campanella, sulle note della musica di Nicola Piovani, intercalano tutti e cinque i singoli episodi narrati, costituendo di fatto una sorta di cornice unificante dell'intero film.  
I fratelli Taviani in Kaos (anche il titolo del film è un chiaro riferimento a Pirandello) costruiscono un discorso in apparenza simbolico su una Sicilia ottocentesca sconfinante a tratti nel mito, ma in realtà nella loro analisi, così come in molta della loro produzione filmica, i due registi toscani pongono al centro della riflessione la Storia con le sue molteplici dinamiche, ricostruite in questo caso attraverso un procedimento che dal particolare conduce al generale, cioè a quell'orizzonte temporale ampio, indicato proprio dal volo del corvo, entro cui si situano le esistenze dei singoli e gli eventi che li riguardano. Gli estremi cronologici presenti nel film, che lo spettatore è chiamato a posteriori a ricostruire partendo dall'episodio conclusivo del film (Colloquio con la madre) e procedendo via via a ritroso fino a quello iniziale, si collocano infatti in un arco che comprende una vicenda risorgimentale dilatata enormemente nei suoi estremi, la rivoluzione del 1848 da una parte, lo scoppio della Grande Guerra dall'altro. L'evento sentito come cardine per gli effetti da esso sortiti, in un drammatico nesso causale, è costituito però dalla spedizione dei Mille in Sicilia, riletta attraverso la personalissima esperienza di Mariagrazia, l'anziana e povera protagonista femminile dell'episodio L'altro figlio, uno dei belli e vibranti dell'opera.
Per i Taviani, attraverso lo sguardo in soggettiva della donna, si è trattato di una rivoluzione mancata, incapace di dare risposte alle istanze di cambiamento dei contadini siciliani. Per questo i garibaldini sono simbolicamente rappresentati nell'atto di distribuire grano e non terre, determinando così la dura necessità dell'emigrazione in terre lontane dalle quali i siciliani partiti non sarebbero più tornati, provocando una lacerazione profonda nel tessuto sociale e familiare di provenienza. Per questo, ancora, Mariagrazia, analfabeta, continua a dettare a Ninfarosa, la venditrice d'acqua del luogo, delle lettere per i due suoi figli emigrati in America da più di quattordici anni, nonostante questi non le abbiano mai risposto, affidando  le missive, di volta in volta, a qualche compaesano in partenza per il Nuovo Mondo, con la preghiera di fargliele pervenire.
Un giorno, mentre è in attesa che un gruppo di contadini parta, scopre casualmente, grazie all'intervento del giovane medico del paese, che nelle lettere non c'è scritto nulla, che sulla carta sono apposte solo delle linee mute, prive di alcun significato. Paradossalmente proprio questa scoperta la ritempra e la conforta, perché può nutrire l'illusione che i suoi figli non abbiano mai potuto leggere le sue lettere, e che quindi non l'abbiano dimenticata volontariamente. Ninfarosa non mostra alcun pentimento per quello che ha fatto né prova pena per lei, in quanto la ritiene sola responsabile delle sue misere condizioni di vita, dato che se volesse potrebbe trovare conforto e aiuto nell'altro figlio, quello rimasto in Sicilia accanto a lei e desideroso solo di aiutarla. Lo stupore del medico è tale da costringere Mariagrazia, dietro la promessa che l'uomo scriverà una vera lettera per lei, a raccontargli tutta la sua storia e a dare conto del perché non riconosca come suo quel figlio, schiacciato dal dolore per non essere stato mai accettato dalla madre. La spiegazione è amara, ma lapidaria: quel figlio è suo ma non le appartiene, non potrà mai amarlo né avvicinarlo, pur essendo egli senza colpa alcuna. La sua unica colpa è l'essere nato.  
Attraverso un flash back rivissuto in un crescendo di orrore, Mariagrazia ripercorre la sua  tragedia personale, iniziata nel momento stesso in cui Garibaldi, da lei chiamato Cunebardo, è sbarcato in Sicilia. Diceva di portare la libertà, ricorda la donna, venne dalle nostre parti e fece ribellare alle leggi ingiuste, campagne e città. Accompagnate dalla sua voce fuoricampo, scorrono intanto sullo schermo le immagini, in campo lungo, di un Garibaldi in camicia rossa, ricoperto da un mantello azzurro, recante in mano una bandiera tricolore, che attraversa orizzontalmente lo schermo, da sinistra verso destra, montando un cavallo bianco. A lui va ascritta tutta la responsabilità della vita distrutta di Mariagrazia, in quanto è per suo ordine che furono aperte tutte le carceri. Uscirono i buoni ma uscirono anche i cattivi, bestie sanguinarie, arrabbiati da tanti anni di catena. Tra questi anche il più feroce e il più terribile di tutti, Comizzi, che alla partenza dei garibaldini rimane a farla da padrone con le sue razzie e le sue violenze.
Anche visivamente si stabilisce uno stretto collegamento tra l'ordine di Garibaldi e il Kaos che ne è conseguito, attraverso il montaggio delle inquadrature: all'immagine di Garibaldi, si sovrappone subito dopo  l'immagine del bandito Comizzi, torvamente vestito di nero, questa volta in campo medio, che procede in direzione opposta a quella del generale, dalla destra dello schermo verso la sua sinistra, a dorso di un bue pure nero, quasi a profetizzare il futuro oscuro che attende la donna. Quel tricolore che Garibaldi impugnava prima ieraticamente nelle mani, sventola ora lontano, sullo sfondo, a suggerire la distanza di quel nuovo stato unitario dalle vicende dei singoli individui, incapace com'è di provvedere persino alla sicurezza dei suoi cittadini.
A farne le spese, tra i molti, anche il marito di Mariagrazia, strappato alla sua famiglia e costretto a seguire i banditi, infine ucciso brutalmente. Tocca proprio a Mariagrazia scoprire la verità tremenda. Partita alla ricerca dello sposo, si imbatte nei banditi che giocano a palla, in un cortile abbandonato. La palla le finisce addosso, con tutto il suo portato di orrore: è la testa mozza di suo marito. Comizzi si avventa su di lei, violentandola.
Dopo nove mesi quel figlio, identico nell'aspetto fisico al padre, ma diversissimo nell'animo, a ricordarle per sempre il  suo dolore e la sua angoscia, eredità pesante della spedizione dei Mille.

 T.G.