«Un intrepido Patriota moveva da Londra, affrontava lo sguardo scrutatore di antichi commissari e birri, percorrendo nel mese di agosto, notorio della persona, il suolo della propria terra natale, affidata salvezza di sé a pochi cangiamenti dell’abbigliamento e della barba». L’intrepido Patriota che circospetto si muove tra le  onde del Mediterraneo, ritratto con stima da Nicola Fabrizi, è Francesco Crispi, la persona viaggiante, l’Ulisse dell’odissea del 1860 e ambasciatore clandestino della rivoluzione in Italia.
Figlio di Tommaso, commerciante di grano di origine albanese, e di Giuseppa Genova di Ribera, oltre ad essere uno degli attori principali del processo di costruzione dello Stato italiano, fu uno statista di fama mondiale e protagonista della politica italiana dei primi quattro decenni del Regno
Compì i suoi studi tra il 1828 e il 1835 al Seminario greco-albanese dei siciliani e nel 1843 si laureò alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Fu nel 1837 che conobbe Rosa D’Angelo, una popolana che sposò all’insaputa e contro la volontà dei propri genitori e dalla quale ebbe due figli, morti nel 1839 come la loro madre.
Negli anni degli studi palermitani mosse i primi passi nel mondo del giornalismo. Fondò nel 1839 “L’Oreteo”, rivista dai toni romantici di cui fu anche direttore. Il giornale svolse un ruolo fondamentale nella formazione politica di Crispi, che sfruttò l’opportunità di conoscere esponenti illustri del panorama culturale siciliano, di sviluppare un forte interesse per la causa del progresso dell’isola e di affrontare i temi legati alla questione sociale in Sicilia. Nel 1845 per esercitare la professione di avvocato si trasferì a Napoli, città culturalmente e politicamente vivace, dove avviò l’attività cospiratrice, collaborando con il Comitato siculo-napoletano, fondato nel 1846 e diretto da Mariano D’Ayala, Giovanni Raffaele e Carlo Poerio, con il compito di far da tramite tra i capi liberali di Palermo e quelli napoletani.
Quando, il 12 gennaio 1848 scoppiò la rivoluzione, si precipitò in Sicilia, dove si occupò dell’organizzazione delle forze militari da opporre all’esercito borbonico. Quello stesso mese fondò un nuovo giornale, “L’Apostolato”, in cui auspicava una soluzione federale della questione italiana e indicava la costituzione siciliana del 1812 come fonte di legittimazione della rivoluzione. Nel Parlamento siciliano votò il conferimento dei poteri regali a Ruggero Settimo e la decadenza dei Borboni dal trono di Sicilia e, quando nell’aprile 1849 la rivoluzione era ormai evidentemente fallita, continuò ad incitare il popolo alla resistenza. Dopo che il 15 maggio il generale Filangeri era entrato a Palermo, Crispi scelse di lasciare l’isola, pur potendo godere dell’amnistia concessa dal governo, e, dopo una tappa a Marsiglia, si trasferì  a Torino. Negli anni dell’esilio meditò a lungo sulle ragioni del naufragio della rivoluzione, imputandola alle esitazioni dei moderati, e scrisse su diversi giornali, come “La Concordia”, “Il Progresso”, “Il Crepuscolo” o “La Gazzetta di Torino”, continuando a sostenere posizioni federaliste, vicine a quelle di Carlo Cattaneo con cui collaborava per la pubblicazione di  documenti sulla rivoluzione siciliana. Dopo il moto mazziniano di Milano del 1853 fu tra gli esuli espulsi dal Regno: a penalizzarlo furono probabilmente le accese critiche che aveva espresso nei confronti del governo torinese e del suo forte centralismo. Giunse a Malta, dove fondò un nuovo giornale “La Valigia”, diventata poi “La Staffetta”, visse grazie agli aiuti che gli inviava il padre e sposò Rosalie Montmasson, che aveva conosciuto a Marsiglia. In questo periodo si avvicinò al Comitato d’azione fondato sull’isola dal democratico Nicola Fabrizi e si allontanò dal progetto di un’Italia federale. Venne espulso anche dalla colonia inglese, dopo essersi attirato le antipatie non solo degli esuli di tendenza moderata, ma delle stesse autorità britanniche che non riuscirono più a sopportare le posizioni radicali di Crispi, che dalle pagine de “La Staffetta” aveva condannato l’alleanza del Regno Unito con la Francia. Iniziò allora a peregrinare per le capitali europee, Londra, Parigi, Lisbona, dove si mantenne grazie a lavori saltuari e continuò a cospirare e a progettare un’insurrezione in Sicilia. A questo scopo il 26 luglio 1859 giunse sull’isola, con un passaporto argentino a nome di Manuel Pareda, visitò Palermo, Messina e Catania e valutò le chances di una rivolta. Ad ottobre, al ritorno da un incontro con Mazzini a Firenze, dovette rendersi conto che le esitazioni dei moderati a Palermo e a Messina avevano avuto il sopravvento e che lo scoppio di una rivoluzione era improbabile. Iniziò dunque a lavorare sul fronte del governo torinese, ormai convinto che l’opzione unitaria e monarchica per l’Italia fosse la più fattibile, ed  il 15 e il 26 dicembre incontrò Urbano Rattazzi e Giuseppe La Farina per ottenere l’appoggio ad una spedizione, guidata da Garibaldi, che partisse dall’Elba, ma senza riuscire a convincerli. Da Genova tornò quindi a guardare alla sua terra d’origine dalla quale finalmente il 4 aprile 1860 giunse la notizia che a Palermo, al convento della Gancia, era scoppiata un’ insurrezione. Il 7 aprile si precipitò dunque a Torino insieme a Nino Bixio e riuscì in breve tempo a convincere Garibaldi che il momento opportuno per la spedizione era arrivato. Il 27 aprile giunse da Malta un telegramma criptato di Nicola Fabrizi: «Offerta botti 160 rum America pence 45 venduto botti 66 Inglese 47 anticipo lire 114 botti 147. Brandy senza offerta. Avvisate incasso tratta lire 99. Rispondete subito». Toccò a Crispi decriptarlo e fu un colpo al cuore: «Completo insuccesso nella provincia e nella città di Palermo. Molti profughi raccolti nelle navi inglesi giunti in Malta. Non vi muovete». Bastò a scoraggiare Garibaldi che inesorabilmente interruppe i preparativi. In realtà l’operazione di decodificazione non era stata semplice: il numero 47 non corrispondeva ad alcuna parola nel cifrario del riberese. Iniziò a tormentarsi per il dubbio di aver bloccato tutto per un semplice errore di interpretazione. Telegrafò dunque a Fabrizi: «Ripeteteci meglio il dispaccio», ma non attese una risposta dell’esule a Malta. Si convinse di aver commesso un errore, il 47 che nella traduzione aveva omesso poteva corrispondere a qualcosa come “successo”, e stravolse la vecchia traduzione: «L’insurrezione vinta nella città di Palermo, si sostiene nelle provincie, notizie raccolte da profughi giunti Malta su navi inglesi». Non è dato sapere se Crispi presentò questo telegramma a Garibaldi come un messaggio completamente nuovo, ma certo è che, esibendolo insieme ad un’altra lettera più incoraggiante giunta da Messina e alle notizie entusiasmanti provenienti dai corrispondenti in Sicilia di giornali come la “Gazzetta di Torino”, riuscì a convincere di nuovo il generale. Il siciliano affibbiò la responsabilità dell’equivoco a Fabrizi che il 23 maggio, profondamente deluso, scrisse a Bertani: «L’amico che mi graziò di responsabilità alla sua inversa interpretazione di un telegramma, mancò di giustizia nel non rettificare, come aveva mancato di criterio dell’interpretazione».
L’11 maggio 1860 poté partire la spedizione dei Mille, che includeva tra i suoi partecipanti una sola donna, Rosalie Montmasson che, irremovibile, aveva preteso di seguire il marito. Crispi, che non aveva alcuna esperienza di servizio attivo, a Talamone assunse il titolo di sotto-capo di Stato maggiore e svolse un ruolo da protagonista in ogni fase della missione. Avrebbe voluto sbarcare a Porto Palo, vicino Menfi, e non a Marsala, approdo proposto da Salvatore Castiglia, che temeva fosse presidiato da una grossa guarnigione borbonica. Dopo un dibattito si convenne che la città nei paraggi di Trapani aveva il vantaggio di possedere un porto, che avrebbe permesso uno sbarco celere, senza bisogno di scialuppe, necessarie invece nelle acque basse di Porto Palo.