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VITO D'ONDES REGGIO (Palermo, 12 novembre 1811 - Firenze, 24 febbraio 1885)

VITO D'ONDES REGGIO

«Farò sempre per quanto in me sarà, che il reggimento centrale si abbia meno, che è possibile, potestà su di ogni obietto. Farò che niuna parte d'Italia perda, quel che si ha di utili istituti». Così si esprimeva nel 1861 D'Ondes Reggio, riprendendo una polemica di origini lontane, ma tornata prepotentemente alla ribalta politica dopo i plebisciti dell'ottobre 1860, che avevano sancito l'annessione delle province meridionali al Regno d'Italia. L'insoddisfazione di D'Ondes Reggio per l'assetto che si era venuto a creare era talmente grande da spingerlo a rifiutare sdegnosamente le cariche amministrative che il prodittatore Mordini gli aveva offerto già all'indomani dell'arrivo di Garibaldi in Sicilia. Del resto, alle questioni relative al decentramento egli aveva dedicato la maggior parte dei suoi studi, ed era stato proprio lui, in quella calda estate del 1860, a proporre con forza che l'annessione avvenisse attraverso l'iniziativa di una rappresentanza politica siciliana - o di un'assemblea popolare - e non mediante la frettolosa procedura plebiscitaria. Il rifiuto delle sue teorie gli era sembrato, così, un'onta incancellabile ai suoi ideali e alla sua storia.
Nato a Palermo nel 1811, appena adolescente Vito era entrato nel collegio "Calasanzio" dei padri delle Scuole Pie, dove aveva avuto come maestro e mentore Michelangelo Monti, poeta e letterato nonché professore di Eloquenza presso l'Università di Palermo. Iscrittosi alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Ateneo palermitano, nel 1832 aveva conseguito la laurea. Appena un anno dopo, pubblicava il suo primo saggio, Discorso politico sulla proprietà al fine di conoscere quella delle isole che nascono dal mare, dedicato al suo amico nonché cognato Emerico Amari, ed ispirato alla questione dell'isola Ferdinandea. Dopo la pubblicazione dell'opera, iniziava la sua carriera in magistratura, che lo portò a percorrere tutta la Sicilia, fino a divenire reggente del Tribunale di Trapani. Nel 1840 divenne socio corrispondente del Reale Istituto d'Incoraggiamento, mentre insieme ad Emerico Amari e Francesco Ferrara scriveva sulle pagine del siciliano "Giornale di Statistica". Tuttavia, venne denunciato per aver esposto accanto alle libertà economiche, quelle politiche: nel 1844 venne allontanato dalla Sicilia e trovò dimora presso Chieti, «io fui dalla mia Palermo allontanato [?] per aver insistito con le parole e coi scritti che in ogni specie di industria la santa libertà regnasse; la denunzia non mancommi né l'ostracismo, avvegnacchè con blanditivo aspetto. Nulladimeno non cessai di lavorare per la libertà della patria, per la quale sin dal '35 lavoravo: non ho cessato di pubblicare cose pregevoli, pei sensi della libertà e per l'affetto verso la patria, quali allora erano sempre pericolo e assai spesso danno a chi le pubblicasse».
Allo scoppio dei moti del 1848, lasciò precipitosamente Chieti per far ritorno in Sicilia: venne eletto deputato alla Camera dei Comuni, in rappresentanza di Castelvetrano e di Melillo. In quei mesi concitati, elaborò lo Statuto del Regno di Sicilia, sulla base della Costituzione del 1812 e formulò e lesse il decreto di decadenza dei Borboni. Tra l'agosto e il novembre del 1848 fu Ministro dell'Interno, per poi passare - fino a febbraio del 1849 - a capo del Dicastero dell'Istruzione. Durante quel periodo, fu attivo collaboratore del giornale "L'Indipendenza e la Lega", fondato e diretto da Francesco Ferrara.
Rappresentò in Parlamento le tendenze giobertiane, spogliandole però della componente moderata: si distinse subito per la rivendicazione di una linea costituzionale, federalista, in difesa delle autonomie amministrative, per l'emancipazione femminile, per l'abolizione della schiavitù, per l'anticolonialismo, per il cosmopolitismo, seguendo il principio della libertà «in tutto ed intera, e freno a non altro che al delitto». Si fece portatore anche di un progetto di istruzione universale, e si oppose con forza all'inserimento costituzionale della religione cattolica come religione di Stato: la Chiesa doveva essere la sorgente che illuminava e faceva agire e vivere il corpo sociale.
Sedata la rivoluzione, fu costretto all'esilio: Malta divenne per lui una patria adottiva. Dopo diversi tentativi di rientrare in Sicilia clandestinamente, iniziò per D'Ondes Reggio un lungo e tormentato peregrinare, fin quando trovò ospitalità presso la città di Torino, divenuta riferimento politico e culturale per l'emigrazione italiana. Nella città piemontese fondò il "Giornale dei Pubblicisti" e "La Croce di Savoia", insieme agli inseparabili Amari e Ferrara. La permanenza presso la capitale del Regno sardo lo avvicinò alla politica moderata cavouriana, facendogli abbandonare alcuni estremismi del suo pensiero, in favore di un atteggiamento politico approntato al realismo e alla mediazione. Frutto di questa evoluzione dottrinaria sono i volumi Discorsi sulle presenti rivoluzioni in Europa e Introduzioni ai principi delle umane società, uno del 1850 e uno del 1856. Nei testi emerge infatti la delusione per il fallimento dei moti quarantotteschi e l'accettazione che l'unico riferimento per unificare la penisola dovesse essere il Regno di Sardegna. Nel 1852 Cavour lo incaricò di tradurre la Storia costituzionale dell'Inghilterra, di Hallam, alla quale D'Ondes Reggio accluse una prefazione in cui celebrava la monarchia costituzionale come la migliore forma di governo. Rinunciò al suo precedente progetto federale e repubblicano, pur non abbandonando l'idea che un verso Stato, anche monarchico, dovesse essere aperto a tutte le libertà e le autonomie.
Nel 1854, dopo aver ottenuto la cittadinanza sarda, ottenne la cattedra di Diritto Costituzionale Pubblico e Internazionale, nell'Ateneo di Genova. In quegli anni avvenne una torsione del suo pensiero: inizia un'aspra critica verso la politica ecclesiastica del Regno sardo, a suo dire eccessivamente aggressiva. Queste frizioni ideologiche si alimentarono tra il 1859 e il 1860, del già citato problema delle annessioni e dei plebisciti.
Eletto deputato nel collegio di Canicattì nel 1861, iniziava il suo "decennio parlamentare", tutto improntato alla tutela delle autonomie locali e del decentramento amministrativo. A queste lotte autonomiste affiancò la difesa degli interessi della Chiesa cattolica, tanto da pronunciare un discorso di fuoco, il 27 marzo 1861, contro la proclamazione di Roma capitale d'Italia. Nel 1870, dopo l'ingresso dei bersaglieri a Roma e l'annessione dello Stato pontificio, rassegnò le dimissioni da deputato. Fu questo il periodo del suo avvicinamento a Pio IX, che lo lodò pubblicamente e lo ricevette per ben due volte in udienza privata.
Le delusioni politiche, però, lo portarono a gettarsi a capofitto negli studi e nella preparazione del primo Congresso cattolico che si svolse a Venezia tra il 12 e il 16 giugno del 1874. Nel corso di quel consesso si impegnò a fondo a trattare i problemi dell'istruzione e dell'educazione dei giovani. L'anno successivo attaccò duramente le istanze del cattolicesimo liberale: «respingete lungi da voi le funestissime insidie del cattolicesimo liberale, che o renderebbe inutile il vostro zelo e le vostre fatiche, o ne scemerebbe il vigore, o le renderebbe sterili». Negli anni seguenti mantenne la sua intransigenza cattolica e fu tra gli assertori del non-expedit, respingendo con forza qualsiasi trattativa tra Chiesa e Stato italiano.
Si spense il 24 febbraio 1885 a Firenze.

S.A.G.