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SALVATORE MANISCALCO (Messina 1813 - Marsiglia, 11 maggio 1864)

Salvatore Maniscalco, Museo del Risorgimento di Palermo

Poco o nulla si conosce delle sue origini, tranne che nacque su un bastimento che si dirigeva a Messina da Palermo. Iniziò la carriera militare, ma la sua vera fortuna fu l'incontro con Filangeri, il comandante delle truppe inviate da Ferdinando II per reprimere il moto del 1848: l'uomo ebbe molta stima di lui e favorì la sua carriera. Nominato Direttore di Polizia presso il ministero luogotenenziale a Palermo nel 1851, nel corso degli anni divenne sicuramente uno dei personaggi più potenti del tempo. La sua attività era intensissima: riusciva a controllare, attraverso una fitta rete di spie collocate su tutto il territorio siciliano e all'estero, le azioni di liberali e antigovernativi e a scoprire le trame cospirative prima che si trasformassero in ribellioni. La sua indiscussa capacità nella prevenzione del crimine non si fermava solo alla lotta contro le attività politiche, ma si estendeva al conflitto contro le terribili bande armate che terrorizzavano i paesi interni della Sicilia, per lo più occidentale. Il ritratto che dipingono i liberali del direttore, non certo lusinghiero, gli epiteti utilizzati, come "sbirro infame", erano dovuti in gran parte ai suoi successi professionali. Lo storico Raffaele De Cesare gli riconobbe invece un grande merito: «si disse che gli eccessi di lui facessero ai Borboni più male di Garibaldi. Io credo che sarebbe più giusto affermare che, senza Maniscalco, i Borboni avrebbero perduta la Sicilia, appena dopo la morte di Ferdinando II» (clicca qui per leggere il documento). Nel descriverlo, De Cesare cercò di ridare giustizia a un personaggio che molto probabilmente, per il suo ruolo di alto funzionario di polizia e per la sua bravura nello svolgere il suo mestiere, era diventato il capro espiatorio contro cui si scagliavano congiuntamente i memorialisti liberali e quelli filoborbonici. 
All'incalzare degli eventi, nel 1859 Maniscalco divenne il punto fermo contro tutti i fermenti che si succedevano continuamente nell'isola, a seguito delle notizie - più o meno vere - che giungevano dai campi di battaglia del nord. Di fatto, divenne quasi più importante dello stesso luogotenente: a lui pervenivano le informazioni di tutte le autorità di polizia locali, delle spie e di intendenti e sottintendenti. Il militare, percependo il clima non favorevole per la monarchia, tentava di stimolarla verso un piano di moderazione e di modernizzazione, rendendosi perfettamente conto che oltre la prevenzione, le attività di spionaggio e la repressione era necessaria una politica riformatrice. Il precipitare degli eventi non favorì certamente il suo operato.
«Lo scoglio, contro il quale s'infrangeva ogni conato rivoluzionario, era Maniscalco.  Tolto lui di mezzo, si credeva impresa facile compiere la rivoluzione. Sul suo capo si erano cumulati grandi odii ed erano odii di liberali e di facinorosi insieme, perché Maniscalco colpiva con la stessa severità gli uni e gli altri».
Contro il Direttore di Polizia fu organizzato anche un attentato, che tuttavia fallì: i mandanti non furono mai identificati e tutt'ora non vi è certezza su chi fossero. Lo storico De Sivo puntò il dito contro i giovani nobili siciliani (il principe di Sant'Elia, il principe Antonio Pignatelli, il barone Riso, il principe di San Cataldo, Casimiro Pisani junior e il marchese Di Rudinì) che furono aiutati dalla malavita; ma la sua tesi non fu mai verificata (clicca qui per leggere il documento). Dopo l'attentato, Maniscalco divenne comprensibilmente più diffidente e duro verso tutti.
Mano a mano che si avvicinava il momento dello scoppio del moto a Palermo, le attività investigative sotto la sua direzione si facevano sempre più intense. Emblematica è la lettera (clicca qui per leggerla) che inviò, il 1 aprile 1860, al luogotenente del re in Sicilia, Castelcicala, nella quale fece presente lo stato agitazione in cui si trovava la popolazione che, nell'imminenza di una rivoluzione, faceva incetta di beni di prima necessità. Prontamente, sotto le sue direttive, la polizia aveva individuato alcuni sospetti membri del comitato rivoluzionario, ma si era preferito non arrestarli tutti per non mettere a repentaglio l'attività degli infiltrati, per poter continuare lo spionaggio e carpire più notizie possibili.
Nel momento dell'avvio della rivoluzione a Palermo, Maniscalco era perfettamente consapevole di ciò che stava accadendo, tanto da bloccare praticamente sul nascere la rivolta della Gancia del 4 aprile 1860. Nonostante la repressione, gli arresti e il disarmo, il vaso di Pandora era stato aperto e lo "spirito pubblico" era entrato in una spirale di tensione. Inoltre, le aspirazioni dei liberali siciliani avevano cambiato direzione, trasformandosi da autonomistiche a filo piemontesi. Maniscalco lo sapeva bene, e così scriveva: «È notevole [...] che il mutamento, che va accentuandosi nella propaganda, che gl' istigatori di disordini vanno facendo; mentre pel passato si è parlato solamente di voler attentare all'attuale ordine di cose per cercar di conseguire la separazione dalle provincie napoletane, adesso si accenna a principii unitarii, a riunione con l'Italia superiore». Per questo, dopo numerosi tentativi di stimolare il luogotenente ad agire, lo scavalcò, rivolgendosi direttamente al re, con diversi rapporti e con un famoso memorandum, datato 15 maggio, che costò il posto al principe di Castelcicala, accusato di inerzia. Mentre Garibaldi distava solo due giorni di mare dalla Sicilia, il Direttore di Polizia, avendo l'esatta percezione di ciò che stava avvenendo, scriveva al re: «Sire, alle porte di Palermo si deciderà la sorte non solo della Sicilia, ma della Monarchia». Con l'arrivo di Garibaldi, Maniscalco mise in salvo la sua famiglia su una nave diretta a Napoli, ma rimase fermo al suo posto, continuando nel suo lavoro sino all'ultimo nel Palazzo Reale con il generale Lanza, il nuovo luogotenente. Dopo la presa di Palermo, il suo potere fu notevolmente ridotto e raggiunse a Napoli la famiglia, con la quale il 28 luglio scelse la via dell'esilio, prima ad Avignone e poi a Marsiglia. Nella città francese svolse un fondamentale ruolo di coordinamento tra i legittimisti che si trovavano in Europa, per ristabilire nel trono Francesco II. Tramontata definitivamente questa ipotesi, aderì ad una posizione autonomistico-federativa.
Morì a Marsiglia nel 1864.
Le sue memorie, scritte durante l'esilio, più volte citate da Giacinto De Sivo nella sua "Storia delle  Due Sicilie", non sono state mai ritrovate.
Numerosi sono gli scritti, le poesie e i canti popolari satirici che si ispirarono alla sua figura, e che lo dipingono come un implacabile servitore dei Borboni, capace di ogni nefandezza, nemico per eccellenza del popolo (per leggere i documenti clicca qui).

C.S.