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La battaglia di Palermo

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«Un intero quartiere, lungo mille e largo cento yards, è in cenere; famiglie intere sono state bruciate vive insieme colle loro case, mentre le atrocità delle truppe regie sono indescrivibili». La distruzione che emergeva dalle parole dell'ammiraglio Mundy, in una pagina di diario del 3 giugno 1860, era quella della città di Palermo, l'antica e maestosa capitale siciliana, dilaniata dai combattimenti tra l'esercito borbonico e le compagnie di garibaldini sin dal 26 luglio.

Saccheggio ed incendio della Porta di Castro
Saccheggio ed incendio della Porta di Castro

Dopo giorni di attesa e di sconforto, a quella data il nemico si era nuovamente deciso ad attaccare, penetrando in città, ma le sorti dello scontro erano impetuosamente precipitate a svantaggio dei napoletani, e la sensazione che la trama della battaglia di Calatafimi sarebbe stata nuovamente rappresentata acquistava sempre più il sapore della certezza.
Dopo quella sconfitta, le truppe napoletane erano mestamente rientrate a Palermo, il 17 maggio, e si erano ritrovate a dover obbedire ai comandi del nuovo luogotenente, il generale Ferdinando Lanza, chiamato a sostituire il principe di Castelcicala, accusato di poca flessibilità e scarsa energia. Nemmeno il suo successore, in verità, sembrava in grado di assumere le redini della situazione, gravato com'era dal peso dell'età, e da sempre poco propenso alle azioni audaci. Così, in attesa di decidere se andare incontro a Garibaldi o se concentrare piuttosto tutte le forze a Messina, per intraprendere da lì una vigorosa controffensiva, il generale restava arroccato nel suo comando palermitano, al fianco di soldati che vedevano venir meno, in egual misura, le forze e la speranza.
Garibaldi, intanto, aveva iniziato la marcia verso la capitale: dopo una breve sosta ad Alcamo e una rapida incursione a Partinico, aveva proseguito sulla via del Borgetto, e ancora più su, per il tratto che congiungeva Monreale a Palermo. Qualche ora più tardi, era riuscito a spingersi sino al passo del Renda, ad appena 18 km dalla città, ma l'immediatezza della meta lo aveva posto dinanzi a dubbi ed interrogativi. L'eroe dei due mondi sapeva bene, infatti, che dentro le mura palermitane avrebbe trovato una truppa di 21.000 soldati, a fronte dei 900 uomini che stavano compiendo la marcia al suo fianco. Certo, era tenace e fondata la speranza che la popolazione avrebbe preso parte attiva ai combattimenti, ma ciò non poteva bastare a garantire la riuscita dell'impresa. Per questo motivo, il generale chiedeva l'aiuto dell'amico Rosolino Pilo, stanziato ad appena 5 o 6 km da lui, affinché si decidesse a lasciare Sagana e si portasse fino a Monreale, per costringere le truppe borboniche che vi erano di stanza - 3.000 uomini guidati dallo svizzero Von Mechel e dal tenente Bosco - a retrocedere, lasciando aperto il varco in direzione di Palermo. Quello che Garibaldi non poteva immaginare era che, proprio mentre l'amico cominciava ad organizzare l'azione, Von Mechel decidesse improvvisamente di dare il via ad una pesante offensiva, destinata a lasciare sul campo un gran numero di soldati i garibaldini, tra cui lo stesso Rosolino Pilo, colpito a morte mentre, dietro l'ingannevole riparo di una roccia, scriveva al generale per chiedere velocemente dei rinforzi.

Rosalino Pilo mortalmente ferito sulle alture di Monreale
Rosalino Pilo mortalmente ferito sulle alture di Monreale

Allo scoramento per la sconfitta si aggiungeva adesso il dolore per la perdita di un fratello: era un Garibaldi insolitamente mesto quello che decideva, frettolosamente, di abbandonare la via di Monreale per volgersi, attraverso ripidi sentieri, alla strada interna che passava da Corleone a Piana dei Greci, e da lì fino a Palermo.
Il 22 maggio, dopo ore ed ore di marcia, le truppe garibaldine erano finalmente giunte a Parco, e qui avevano conquistato una posizione abbastanza vantaggiosa sul Cozzo di Crasto, uno sprone montano a picco verso la capitale. Garibaldi sperava in un assalto frontale delle truppe napoletane, che gli avrebbe permesso di incalzare i nemici in un serrato faccia a faccia, mentre le squadre del La Masa avrebbero sferrato un attacco congiunto alle spalle e ai fianchi dei borbonici: il risultato sarebbe stato quello di inseguirli fino alle porte di Palermo, dove sarebbe poi scoppiata l'insurrezione. Tuttavia, l'alba di giorno 24 era destinata a proiettare una luce impietosa sulle illusioni di Garibaldi: i primi raggi di sole mostravano, infatti, una colonna di regi pronta ad attaccare frontalmente, ma anche, del tutto inattesa, una grande truppa in arrivo da destra, verso le sorgenti dell'Oreto; l'idea dei napoletani, evidentemente, era quella di compiere una manovra avvolgente, che serrasse in una morsa le truppe garibaldine. A quel punto, non restava che la ritirata su Piana dei Greci, dal lato di Corleone, abbandonando lo spartiacque verso Palermo per procedere verso l'entroterra dell'isola. Si arrivava a Piana solo a sera del 24, e il morale dei volontari era quanto mai scosso: la marcia sulla capitale era fallita per due volte, Pilo era scomparso, le truppe di La Masa, dopo la fuga precipitosa, cominciavano a disperdersi disordinatamente per le campagne.
Era Garibaldi, a quel punto, a trovare il modo di ribaltare la situazione, con una mossa a sorpresa. Il generale decideva infatti di mettere in marcia, all'improvviso, una quarantina di carri con i bagagli, i soldati feriti e gli infermi, e 5 cannoni con 50 artiglieri e 150 picciotti siciliani. Nonostante fosse già sera, gli ultimi bagliori del tramonto siciliano infuocavano il cielo: in questo modo, la popolazione di Piana aveva potuto scorgere con facilità quella colonna di rivoluzionari, al comando di Vincenzo Orsini, incamminarsi alla volta di Corleone, e chiunque avrebbe scommesso che ad essi avrebbe fatto seguito tutto il resto dei Mille. In effetti, al calare della notte anche gli altri volontari si erano avviati per la stessa strada, ma dopo qualche chilometro, avvolti dall'abbraccio delle tenebre, quegli uomini, guidati dallo stesso Garibaldi, avevano sommessamente svoltato a sinistra, per proseguire in direzione di Marineo, intenzionati a raggiungere Palermo di soppiatto, cogliendo di sorpresa i comandi borbonici. L'idea era ardita, ma destinata a rivelarsi vincente: l'indomani, Von Mechel e i suoi uomini si erano diretti a Corleone, dove avevano sferrato un attacco violentissimo alle squadre di Orsini. Nello scontro, i garibaldini perdevano 2 cannoni e si ritrovavano costretti ad indietreggiare sino a Giuliana, ma riuscivano nell'ardua impresa di tenere lontane dalla capitale 4 battaglioni borbonici dei più valorosi.
Frattanto, intorno alle quattro del mattino del 27 maggio, le squadre di Garibaldi erano pronte ad entrare a Palermo. Si trovavano nei pressi di Porta Termini e stavano per varcare le mura della città, quando venivano colpiti dal fuoco congiunto di un reparto d'artiglieria e di un cannone posizionato su una delle navi da guerra borboniche. Tukory, volontario ungherese, cadeva sul colpo; Cairoli, Canzio e Bixio erano malamente feriti. Ma nessuno aveva intenzione di abbandonare la meta: con l'aiuto di Garibaldi, prontamente accorso alla testa dei suoi uomini, le barricate venivano abbattute e le truppe potevano introdursi in città, portandosi nella zona della Fieravecchia.

Entrata di Garibaldi a Palermo
Entrata di Garibaldi a Palermo

In quel momento, Palermo era finalmente pronta ad insorgere, in blocco: si udivano le campane suonare a stormo, le finestre si spalancavano, la popolazione accorreva nelle strade, incitata dai i Mille e da un proclama dello stesso dittatore: «Siciliani! Il generale Garibaldi [?]essendo entrato in Palermo questa mattina 27 maggio, ed occupata la città, rimanendo le truppe napoletane chiuse solo nelle caserme e nel Castello a Mare, chiama alle armi tutti i comuni dell'Isola, perché corrano nella metropoli al compimento della vittoria».

Il popolo palermitano alla barricata della salita del monastero de' sette angeli
Il popolo palermitano alla barricata della salita del monastero de' sette angeli

Sorpresi di trovarsi il nemico fin dentro le mura, i comandi borbonici non apparivano da subito in grado di opporre un piano preordinato all'avanzata garibaldina: così, preferivano lasciare le truppe concentrate nella zona intorno al Palazzo reale, e da qui dare vita ad un'azione di distruzione che comprendeva l'incendio delle case vicine, la profanazione e la rapina delle chiese, i bombardamenti. A nessuno veniva in mente di muovere incontro a Garibaldi, e questi, in poco tempo, poteva giungere fino al centro della città, a palazzo Bologni, per poi sostare nella vicinissima piazza Pretoria. Solo con ritardo i napoletani si incamminavano in direzione del nuovo quartier generale garibaldino, ma in fretta venivano fermati e costretti a retrocedere. I regi erano ormai concentrati in due gruppi separati, e del tutto impossibilitati a ricongiungersi. Nemmeno il richiamo delle truppe stanziate a Monreale e Parco doveva rivelarsi efficace, anche perché le fila dei rivoluzionari si ingrossavano, intanto, con le truppe di Pilo - che al comando di Corrao giungevano a Palermo - e poi con tutti i prigionieri evasi dal carcere della Vicarìa, quasi 2.000 uomini liberi di scorazzare per la città per ribellarsi al potere borbonico.