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L'esercito Merdionale

La campagna garibaldina del 1860 in Sicilia non è la spedizione dei Mille. I partecipanti alla campagna garibaldina del 1860 in Sicilia non sono solo i Mille.
Le operazioni di organizzazione, raccolta fondi e arruolamento nell'Italia settentrionale proseguirono dopo la partenza dei volontari da Quarto e il governo sardo, presa di Palermo, si fece sempre meno scrupoli nel supportare le manovre militari per rimpolpare il contingente volontario. La dicevano lunga sul ruolo del regno sabaudo le divise turchine dei sottoufficiali sardi che sbarcavano sull'isola, uomini congedati o disertori, talvolta persino accompagnati dal rullo dei tamburi reggimentali.
Così Cesare Abba descrisse l'ingresso a Palermo della brigata di Giacomo Medici: «Medici è arrivato con un reggimento fatto e vestito. Entrò da Porta Nuova sotto una pioggia di fiori. Quaranta ufficiali, coll'uniforme dell'esercito piemontese, formavano la vanguardia» (clicca qui per leggere La memoria dei garibaldini). Era sbarcato in Sicilia alla guida di una spedizione di due navi, 2550 uomini, dopo che a Cagliari si era unito al gruppo di 1200 toscani, saliti a bordo a Livorno e guidati da Vincenzo Malenchini e da Tito Zucconi.
Diverse imbarcazioni cariche di rinforzi si avvicendarono nei porti siciliani nell'estate 1860. Nell'entusiasmo generale erano sorti vari comitati di provvedimento per i soccorsi alla Sicilia, che avevano come coordinatore a Genova Agostino Bertani e in pochi mesi riuscirono a raccogliere 6.200.000 lire. La gestione delle risorse venne affidata all'Intendenza militare garibaldina, in particolare al colonnello Ippolito Nievo, che gestì l'incarico con tanta cura, da risultare inviso a quanti avrebbero voluto approfittare dell'eccezionalità del momento per trarre vantaggi economici personali. I Mille divennero presto 20.000. Il Generale pensava che avrebbero potuto essere molti di più, 250.000, e che presto avrebbero potuto formare un esercito meridionale per il proseguimento della spedizione nel continente, strutturato come un esercito regolare.
Ma la razionalizzazione dell'apparato militare passò per una pedissequa riproposizione del modello piemontese, che risultò piuttosto farraginosa. La Segreteria di Stato della Guerra venne affiancata da uno Stato maggiore generale dell'Esercito e da Ispezioni generali divise per arma: artiglieria, cavalleria (sebbene di fatto inesistente nell'esercito volontario), fanteria.
Il 2 luglio, con il decreto n. 79, l'Esercito siciliano venne ordinato in divisioni, ognuna delle quali suddivisa in due o tre brigate, a loro volta frazionate in quattro o otto battaglioni. Ogni unità aveva vertici e stati maggiori e una mole consistente di ufficiali e superiori: Stefano Türr fu destinato al comando della 15ª divisione, strutturata in una 1ª brigata, condotta da Nino Bixio e in una 2ª guidata dal colonello Herbert, mentre la 16ª divisione, al cui interno confluivano la 3ª brigata di Enrico Cosenz, la 4ª del colonnello Poulet e la 5ª di Giacomo Medici, fu affidata a Giuseppe Paternò. Spesso si creavano conflitti tra i diversi livelli in cui era articolato il potere militare: gli alti ufficiali finivano con l'ignorare l'Ispezione generale e persino lo Stato maggiore dell'Esercito entrava in conflitto con il Ministero della Guerra. Il caos non aveva ricadute solo sugli ingranaggi della macchina bellica garibaldina, ma complicò la stessa amministrazione finanziaria della dittatura ed in particolare mise in seria difficoltà Ippolito Nievo, vice-intendente generale di Sicilia, che dalla gestione dei registri della spedizione ebbe solo grattacapi ed «incertezze», come scrisse nel novembre 1860 all'amata Bice Melzi, rassicurandola però con una curiosa e tragicamente cieca metafora marina: «È un buon tratto da percorrere ancora; ma non burrascoso, né perfido, soltanto noioso» (clicca qui per leggere l'intera lettera). La fine del colonnello in un misterioso naufragio (ironia della sorte!) parve legata alla necessità di occultare i documenti contabili in suo possesso. Secondo il discendente, Stanislao Nievo, il nuovo Regno pur di smantellare il virtuoso esercito garibaldino, volle occultare l'impeccabile gestione finanziaria, opera dell'antenato, macchiandosi di quello che non fu un casuale affondamento, ma un vero e proprio delitto di Stato. All'opposto c'è chi pensa che, se davvero di sabotaggio si trattò, lo scopo era quello di celare le gravi malversazioni compiute dall'esercito e coperte degli stessi ministri del governo prodittatoriale, Giuseppe Paternò di Spedalotto e Nicola Fabrizi. A settembre il Commissario di Guerra Nicolò Agata denunciava infatti gli abusi commessi dai militari a partire dalla vendita degli abiti e degli oggetti forniti dalla pubblica amministrazione, eclatante fu il caso della vendita dei 60000 inutili cappotti comprati a peso d'oro, e ad ottobre una circolare dello stesso Ministero constatava «la sproporzione massima degli uffiziali alla forza dell'esercito». Non solo gli ufficiali erano più di 6000, ma si continuavano a pagare soldati assenti o morti, si acquistavano beni non necessari per favorire alcuni fornitori, si elargivano promozioni sul campo con un'estrema facilità e, come sottolineò il colonnello ungherese Kupa, si prendevano «razioni per il triplo degli uomini che avevano a mantenere, cioè 70.000 od 80.000 razioni quando tutta l'armata non ascendeva a più di 25.000». I grandiosi progetti del generale Garibaldi per l'ingrandimento dell'esercito siciliano non avevano avuto infatti alcun seguito. La cifra di 50.000 volontari al momento della smobilitazione del corpo il 6 novembre 1860 è infatti giustificabile solo se si annoverano nel conto dei militi i picciotti delle squadre irregolari. Vani erano stati gli sforzi del Generale di coinvolgere i siciliani facendo leva sul loro orgoglio con colti riferimenti alla vicenda dei Vespri: «Io e i miei compagni siamo festanti di poter combattere, accanto ai figli del Vespro, una battaglia che deve infrangere l'ultimo anello di catene con cui fu avvinta questa terra del genio e dello eroismo!». Né migliori risultati ebbe il decreto sulla leva obbligatoria col quale si sperava di porre un'alternativa oltre che un freno proprio a quelle bande di irregolari che non facevano che compromettere l'ordine pubblico isolano.
In realtà l'assenza di vincoli disciplinari formali era un problema che non riguardava soltanto le squadre di campieri e picciotti. La «non organizzabilità» dell'entusiasmo dei volontari, che era stata un vanto per Nicola Fabrizi, rappresentò una trappola mortale per l'esercito meridionale. Ne era convinto l'autore sconosciuto della lettera che il modenese ricevette nel febbraio 1861: «Non siamo organizzati né organizzabili tu dicevi. E dove mai e più lucida verità di questa? Nel leggerla, Nicola carissimo, mi sentivo proprio venire meno la fede, e mi fosse davvero mancata, se subito davanti agli occhi mi si fosse parata gigante la tua infinità». Per dirla con Eva Cecchinato e Mario Isnenghi: «In ogni volontario si esprime una soggettività politica e già per questo si nasconde un potenziale obiettore». Quella che per molto tempo aveva suonato alle orecchie dei volontari come una rivendicazione di orgogliosa autonomia, di fiera autosufficienza, divenne un cappio soffocante nel confronto con le istituzioni dello Stato nascente: l'imprevedibilità dell'entusiasmo di una nazione armata. Ecco perché all'indomani del plebiscito un decreto del governo dittatoriale dell'11 novembre 1860 ne intimava lo scioglimento, nella nebulosa prospettiva di ricostituirlo su più solide basi e nominava anche i membri di una Commissione di scrutinio, che avrebbe dovuto valutare i titoli degli ufficiali garibaldini e decidere del loro futuro. Secondo lo storico militare John Gooch 5000 ufficiali circa vennero inseriti nell'esercito italiano entro il marzo 1862.

C.M.P.

Principale bibliografia di riferimento:

- Cecchinato E., Camicie rosse. I garibaldini dall'Unità alla grande guerra, Laterza, Roma-Bari 2007;
- Cecchinato E., Isnenghi Mario, La nazione volontaria, in Storia d'Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, pp. 697 - 720;
- Martucci R., L'invenzione dell'Italia unita 1855-1864? Sansoni, Firenze 1999;
- Riall L., Garibaldi. L'invenzione di un eroe, Laterza, Roma-Bari 2007;
- Riall L., La Sicilia e l'unificazione italiana. Politica locale e potere liberale (1815-1866), Einaudi, Torino 2004.