Secondo alcuni resoconti Crispi fu il primo a toccare terra con un gruppo di cinquanta uomini. Dopo essersi assicurato il controllo delle banche, dell’ufficio postale e della prigione, depose la carica militare e cominciò ad impegnarsi sul piano politico-amministrativo. Fu colui che spinse per l’instaurazione della dittatura di Garibaldi in Sicilia, con il decreto di Alcamo del 17 maggio venne nominato Segretario di Stato (clicca qui per leggere il canto A Francesco Crispi, segretario di Stato di Vincenzo Navarro) e il 2 giugno entrò nella squadra di governo nei panni di ministro dell’Interno e delle Finanze. Considerato la vera mente politica della dittatura, oltre ad occuparsi della nomina dei governatori dei vari distretti fu autore di importanti decreti come quello relativo alla distribuzione delle terre demaniali ai combattenti, all’abolizione dell’imposta sul macinato e del dazio sul grano, all’espulsione dei gesuiti, all’abolizione del titolo di “eccellenza e del baciamano”, all’introduzione della leva obbligatoria e alla difesa dell’ordine pubblico. Contrario all’idea di un’immediata annessione plebiscitaria della Sicilia al Piemonte, fu coinvolto in un durissimo scontro con Giuseppe La Farina, che gli rivolse contro la piazza accusandolo di infedeltà alla monarchia e costringendolo a presentare le dimissioni il 27 giugno. Durante la prodittatura di Agostino Depretis tornò a reggere il ministero dell’Interno, ma  trascorse i mesi del governo di Antonio Mordini a Napoli, nuovo centro della vita politica meridionale, dove fu nominato segretario di Stato per gli Esteri. Anche dopo lo scioglimento dell’amministrazione dittatoriale la rivalità con La Farina, membro del Consiglio del luogotenente Montezemolo, continuò a riservargli brutte sorprese: nella notte tra il 1° e il 2 gennaio, mentre si trovava a Palermo, una squadra di carabinieri fu spedita a casa sua per arrestarlo, ma riuscì a scappare. Attraverso “Il Precursore” ribadì la propria fedeltà a Vittorio Emanuele e il 18 febbraio venne eletto al Parlamento di Torino nel collegio di Castelvetrano. Negli anni da deputato provò a conciliare la fedeltà agli ideali democratici e la scelta realista, monarchica e legalitaria (clicca qui per leggere la lettera a Mazzini Repubblica e monarchia). Per tanto si distaccò progressivamente dalle iniziative rivoluzionarie garibaldine e si limitò a difendere Garibaldi nell’aula parlamentare dopo Aspromonte. Nel 1864 prese definitivamente le distanze dal suo passato rivoluzionario, dicendo: «Il tempo delle rivoluzioni è finito” e ancora: “La monarchia è quella che ci unisce, la repubblica ci dividerebbe». A preoccuparlo era ora la formazione del sentimento nazionale in Italia e il problema dell’educazione politica degli italiani, che andava conseguita attraverso un’opera di riforma delle istituzioni che mirasse all’allargamento del corpo elettorale, al Senato elettivo ed alla gratuità del mandato parlamentare. Dopo Mentana, che aveva rappresentato la fine del garibaldinismo, il passaggio a questo codice legalitario fu completo. Si aggiunse la convinzione che la politica interna non poteva prescindere dalla considerazione del contesto internazionale nel perseguimento dei suoi obiettivi. A dimostrazione di ciò la breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870, dopo che su pressione di Crispi, Bertani, Cairoli, Fabrizi e Rattazzi il governo Lanza, nella persona di Sella, si era impegnato ad approfittare della guerra franco-prussiana per procedere all’annessione di Roma.
Crispi fu protagonista anche nella discussione parlamentare sul disegno di legge sulle guarentigie al pontefice, dimostrando di non aver mai messo da parte un forte anticlericalismo.
Dopo essere stato escluso dal primo governo della sinistra dopo la “rivoluzione parlamentare”  del 18 marzo 1876, venne eletto alla presidenza della Camera in seguito alle elezioni del novembre 1876. Fu ministro dell’Interno durante il secondo governo Depretis tra il 1877 e il 1878. Fu costretto a dimettersi per un gravissimo scandalo: venne accusato di bigamia, da il giornale “Il Piccolo”, vicino al suo avversario e predecessore all’Interno Nicotera,  per aver sposato Lina Barbagallo, nonostante il legame con la Montmasson, che Crispi dal canto suo considerava nullo perché officiato a Malta e non registrato in Sicilia entro tre mesi, come richiedeva il codice civile napoletano. Negli anni tra il 1878 e il 1886 Crispi rimase fuori dalle compagini ministeriali. Da deputato criticò aspramente la politica interna e quella estera e coloniale dei vari governi che si susseguirono. Accettò nel maggio 1882 la Triplice Alleanza, nella quale però non leggeva sufficienti garanzie per l’Italia nei confronti dell’abominata Francia e nel giugno 1884, da convinto assertore dell’utilità della guerra come agenzia di nazionalizzazione, accusò Depretis e Mancini di ignorare la necessità di far entrare l’Italia nella partita coloniale, che in quegli anni affrontavano le potenze europee.
Nel 1887 divenne ministro dell’Interno in un ottavo governo Depretis e a luglio di quello stesso anno fu il primo fra i meridionali ad essere incaricato dal re della presidenza del Consiglio e dell’interim degli Esteri. Durante il suo governo venne completata la riforma amministrativa dello Stato, e fu consegnato al Paese un nuovo codice penale: il codice Zanardelli. In politica estera avviò una stretta collaborazione con il leader europeo che più ammirava, Otto von Bismarck, anche in funzione antifrancese. Erano anni di profonda crisi economica per la penisola e l’interruzione delle trattative italo-francesi per un nuovo trattato di commercio portò ad una “guerra delle tariffe” che danneggiò ulteriormente l’economia meridionale. Dopo lo scandalo della Banca Romana e la caduta del governo di Giovanni Giolitti, assunse nuovamente la guida del Paese e mostrò il pugno di ferro nella repressione dei Fasci siciliani, facendo proclamare al generale Morra di Lavriano lo stato d’assedio nell’isola. La sua carriera finì tra le polemiche e nella catastrofe a causa della politica coloniale avviata sul Mar Rosso: nel marzo 1896 le truppe italiane furono sconfitte dagli etiopici ad Adua e Crispi fu costretto a rassegnare le dimissioni. Nei cinque anni che seguirono continuò a seguire da Napoli la politica italiana e nella città campana morì l’11 agosto 1901.

 

C.M.P.


Principale bibliografia di riferimento: