Palermo, ottobre 1860. Sono trascorsi quasi 5 mesi dalla liberazione della Sicilia, e la percezione degli eventi – da parte di coloro i quali ne sono stati protagonisti, o quanto meno spettatori privilegiati – sta lentamente cambiando: il tempo della speranza ha iniziato a cedere il passo ad una vaga disillusione, che a tratti lambisce l’amarezza. Dopo l’euforia dello sbarco, delle vittorie militari, dopo l’ardore della conquista è finalmente arrivato il tempo dell’unificazione d’Italia; tuttavia, in Sicilia, questo momento è foriero di aspri dibattiti, legati al problema scottante delle concrete modalità con cui realizzare l’annessione dell’isola al nuovo Regno: intorno al mantenimento di alcune autonomie, ritenute fondamentali, una parte rilevante dell’élite politica siciliana decide così di sollevare l’attenzione dell’opinione pubblica, del dittatore dell’isola e della classe dirigente piemontese. Tra i più convinti sostenitori di un assetto istituzionale decentrato c’è Francesco Paolo Perez, autore di un indirizzo che giorno 1 ottobre viene presentato al prodittatore Mordini: «Le mire e gli interessi dei Siciliani non sono un mistero: debbono e vogliono di tutto cuore e con tutte le loro forze concorrere alla formazione d’una Italia forte, indipendente, libera e prospera e vogliono immolarvi tutto ciò che per formarla possa dai loro sacrifici e sforzi dipendere. Ciò che non vogliono, e che l’Italia certamente non vuole, è il compromettere, senza utilità della patria comune, o a scapito di essa, la propria conservazione o il proprio benessere. Quindi l’Italia non può esser pronta a riconoscere che, nell’atto di accoglierci nel suo grembo, vi son condizioni e canoni da rispettare e formulare».
Si tratta di una dichiarazione abbastanza esplicita, e tuttavia destinata a restare lettera morta, se già il 21 dello stesso mese la Sicilia è praticamente “trascinata” alle urne per pronunciarsi sull’annessione immediata, che registra 432.053 voti favorevoli al cospetto dei 677 contrari.
Le speranze di Perez, tuttavia, non sono ancora sopite: è così che le sue idee assumono la forma polemica del pamphlet La Centralizzazione e la Libertà (clicca qui per leggerlo), che qualche settimana più tardi inizia a circolare in fogli sciolti per tutta l’isola, e nel 1862 viene pubblicato a Palermo dalla tipografia Lao. L’opuscolo rappresenta a tutti gli effetti un catechismo politico autonomista: se non revoca minimamente in dubbio l’unificazione italiana, tuttavia esige che essa venga realizzata nel pieno rispetto dei privilegi di cui la Sicilia gode da secoli, in virtù dei quali non potrebbe mai accettare una piemontesizzazione delle sue leggi e delle sue istituzioni.
Si tratta insomma di idee forti, che gli valgono il sospetto di Cavour e della corte torinese, nonché di tutti i moderati annessionisti di Sicilia. Perez, tuttavia, non se ne cura: ha consacrato tutta la sua vita alla ricerca della libertà, anche quando quella ricerca l’ha condotto nel buio di una cella o su una nave straniera, trasformato in un esule. Anche adesso, tenacemente resiste, e proprio nel ricordo delle sue passate disavventure trova la forza di battersi ancora.
Laureato in Legge per volere della famiglia, a soli 18 anni, appena tre anni più tardi Francesco avverte il prepotente bisogno di dare una svolta alla sua vita: i codici e le pandette gli appaiono strumenti sterili, e poco adatti a colmare la sua voglia di conoscere il mondo. Parte così alla volta di Napoli, dove trova un impiego presso il banchiere Rotschild. Presto, però, anche quel lavoro inizia a non bastargli, mentre le idee politiche liberali, maturate nel corso degli anni, lo spingono ad allontanarsi il più possibile dalla sede di una monarchia che ormai detesta. Così, si trasferisce a Roma, dove si lascia inebriare dalla magniloquente bellezza di rovine storiche e monumenti, fino a decidere di intraprendere gli studi artistici. Per qualche anno si immerge nel tentativo di riprodurre la perfezione della natura nelle opere d’arte, poi il suo animo inquieto torna a scalpitare, e Francesco decide di far ritorno a Palermo, dove accetta un lavoro presso il Ministero di Polizia. È una decisione dettata esclusivamente dal desiderio di far felici i suoi genitori, che già da tempo lo pressano affinché trovi un impiego stabile e duraturo, in grado di garantirgli una certa sicurezza economica. Francesco accetta così di provare a mascherare il suo odio per i Borbone, ma presto le sue idee tornano prepotentemente a galla: nel marzo del 1838, in occasione della visita di Ferdinando II in Sicilia, un ispettore di Polizia gli commissiona la creazione di una poesia celebrativa per il sovrano. Francesco, senza pensarci due volte, rifiuta, stracciando in mille pezzi l’incarico ufficiale che gli era stato recapitato a casa. La misura è colma: i funzionari del Ministero, già a conoscenza delle idee liberali di Perez, trasformano quell’episodio ne pretesto per allontanarlo immediatamente dal suo posto di lavoro.
Ancora una volta, Francesco si ritrova costretto a reinventarsi una vita. Su consiglio di alcuni amici, apre nella casa paterna una scuola privata di letteratura, destinata in breve tempo ad accrescere la sua fama, fino a diventare una vera e propria fucina di talenti letterari, nonché la sede più adatta alla trasmissione degli ideali politici del suo creatore. Non agisce da solo, Francesco. Insieme a lui, partecipano al successo della scuola i futuri leader della rivoluzione del 1848, poi del 1860: Emerico e Michele Amari, Francesco Crispi, Francesco Ferrara. L’attività del gruppo si trasfonde anche al giornalismo: “L’Eco Peloritano”, “La Ruota”, “L’Osservatore”, “Il Maurolico” sono i contenitori dei loro appassionati dibattiti e degli incitamenti lanciati all’indirizzo del popolo di Sicilia. È, questo, anche il periodo delle pubblicazioni letterarie, filosofiche ed estetiche di Perez, che dà alle stampe Sulla prima allegoria e sullo scopo della Divina Commedia (1836), poi L’Analisi del bello ed altri opuscoli sul significato dell’arte.
I primi mesi del 1847 portano ad una nuova svolta: Francesco inizia ad insegnare presso il Convitto Tulliano di Palermo, e intanto – certo della possibilità di un’insurrezione imminente – continua a spronare le coscienze: sull’esempio di Luigi Settembrini, che ha rotto gli indugi dando alle stampe il pamphlet Protesta del popolo delle due Sicilie, pubblica in quei mesi un infuocato Appello dei Siciliani ai fratelli di Napoli, violenta requisitoria contro i Borbone in cui esorta i sudditi del Regno ad unirsi per sconfiggere la monarchia. Per la polizia borbonica, quelle parole fanno di lui un indesiderato: il 9 gennaio del 1848, a soli tre giorni dallo scoppio della rivoluzione, Francesco viene arrestato assieme ad altri dieci patrioti e rinchiuso nella fortezza di Castellammare. La prigionia dura poco più di un mese: il 14 febbraio arriva la scarcerazione, e quindi la possibilità di agire come protagonista del moto. Viene eletto deputato alla Camera dei Comuni per la circoscrizione di Alcamo, e intanto sviluppa un forte orientamento federalista, che riversa sulle pagine del giornale “L’Indipendenza e la Lega”, alla cui redazione collabora insieme a Francesco Ferrara. Dopo la firma dell’atto di decadenza della dinastia borbonica, entra a far parte della Commissione che si reca a Torino per offrire la corona di Sicilia al duca di Genova, Alberto Amedeo; nonostante il rifiuto, e la fredda accoglienza ricevuta, Francesco decide di restare in Piemonte, dove alla fine dell’anno prende parte al Congresso organizzato dalla Società Nazionale per la Confederazione Italiana, sotto l’egida morale e politica di Vincenzo Gioberti.
La trasferta si protrae più del previsto: Perez è ancora a Torino, nel 1849, quando si diffonde la notizia della sconfitta della rivoluzione siciliana e della dura repressione borbonica. Sceglie così di non rientrare in patria, ma di continuare – seppur da lontano – ad attirare l’attenzione sui temi che più gli stanno a cuore: pubblica così l’opuscolo La rivoluzione siciliana del 1848 considerata nelle sue ragioni e nei suoi rapporti con la rivoluzione europea, tradotto in diverse lingue e subito diffuso in mezza Europa. Nell’estate del 1849, intanto, decide di spostarsi in Toscana: la sua situazione economica è disastrosa, e grazie all’intercessione del letterato Vieusseux riesce ad ottenere un posto nell’amministrazione delle ferrovie del Granducato. La sua cultura e l’impegno profuso nel suo impiego gli valgono la nomina a Segretario Generale e Consultore Legale.
Le traversie politiche, comunque, non sono finite: nel 1852 apprende di essere stato condannato in contumacia dal governo napoletano all’esilio perpetuo, in seguito ad un processo che lo ha visto imputato assieme ad Alessandro Poerio, Luigi Settembrini e Silvio Spaventa.
Francesco non se ne preoccupa, e seguita a condurre la sua vita da esule, cui tutto sommato inizia ad affezionarsi.
Il destino, però, gli riserva ancora molte sorprese: il 1859 si annuncia con il grido di dolore di Vittorio Emanuele II per le sorti di un’Italia divisa e soggetta al giogo straniero; subito dopo, il Piemonte dichiara guerra all’Austria, e celebra le vittorie di Magenta, Solferino e S. Martino, mentre le regioni dell’Italia Centrale si pronunciano a favore dell’annessione alla monarchia sabauda. Pare a tutti gli effetti la promessa di qualcosa di nuovo, di grande. Perez non rinuncia ad incitare i suoi compatrioti, i Siciliani: «L’Europa da più tempo vi guarda e stupisce della vostra inazione. Voi, sempre primi ad inalberare il vessillo di libertà fra le italiche genti, ora che tutta Italia insorge per cacciare lo straniero oppressore e sedere redenta nel consesso delle grandi nazioni, ve ne restate impassibili?».
Poco dopo, non c’è più tempo per le parole. Subito dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala, Francesco lascia la Toscana alla volta della Sicilia, dove partecipa attivamente alla gestione del governo.
Malgrado l’effetto dirompente che i suoi scritti e le sue idee autonomiste suscitano nei circuiti politici piemontesi, la sua carriera non conosce stallo. Nel 1871 diviene Senatore, nel 1876 è eletto sindaco di Palermo. L’anno successivo riceve dal Presidente del Consiglio, Depretis, il portafoglio dei Lavori Pubblici, battendosi strenuamente per la costruzione della ferrovia Palermo-Messina. Dopo la caduta del governo, con l’insediarsi del nuovo gabinetto Ricasoli, passa al Ministero della Pubblica Istruzione, dal quale però è costretto a dimettersi a causa di dissensi politici con i superiori, che lo accusano persino di clericalismo.
È l’ultima prova di un’esistenza vissuta controcorrente, e tuttavia, questa volta, gli acciacchi e l’età avanzata non gli permettono di reagire con la consueta forza. Scaglie così di abbandonare la vita pubblica, e qualche anno più tardi, nel febbraio 1892, si spegne, nella sua amata Palermo.

S.A.G.

Principale bibliografia di riferimento:

- Di Carlo R., Il pensiero e l’azione politica di Perez, Palermo 1936;
- Folchitto R., Sicilia e Siciliani. Francesco Paolo Perez, Palermo 1935.