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La rivolta delle Bandiere

«I sovvertitori dell'ordine e della militare disciplina, radunate avendo [...] le loro forze ascendenti a 400 uomini ad un bel circa, trascesero alle più brutali violenze verso gli abitanti di quelle adiacenze, sino al villaggio di San Pietro a Paterno. Dovunque scassinarono case, involarono oggetti, misero a soqquadro il paese, malmenarono, percossero quanti vennero loro d'innanzi e, per colmo di infamia e di ferocia, barbaramente trucidarono il bettoliere posto alla dogana di Capodichino, dopo essere stati da quell'infelice largamente provveduti di vino e di commestibili». Così scriveva, il 14 luglio 1859, «Il Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie», impregnando le sue pagine dell'orrore per un episodio di violenza tanto più incomprensibile quanto inatteso: la rivolta di alcuni reparti dei reggimenti svizzeri dell'esercito borbonico. Si trattava di un ammutinamento feroce ed efferato, e forse qualcuno degli osservatori più sensibili, in quella torrida e difficile estate napoletana, iniziava già a rendersi conto che tutto quel sangue versato non poteva essere un buon presagio per il nuovo regno di Francesco II, subentrato al padre da pochissimi mesi. Proprio da Ferdinando II il nuovo sovrano aveva ereditato la spinosa questione del rinnovo degli accordi con i governi cantonali: le capitolazioni, infatti, erano scadute nel 1854, e il re aveva preferito sostituire, all'intesa istituzionale, dei patti specifici con i singoli comandanti dei quattro reggimenti svizzeri (che da quel momento prendevano il nome di "Esteri"), per una proroga di 5 anni. Il Parlamento di Berna aveva ratificato gli accordi - pur senza mostrarsene entusiasta - tuttavia, allo scadere del quinquennio, aveva stabilito che i soldati in servizio in altri Stati non potessero più portare lo stemma cantonale sulle insegne dei loro reggimenti. La notizia aveva letteralmente sconvolto il sarto del 4° reggimento, che si era categoricamente rifiutato di eseguire il provvedimento, e molto presto i malumori e le proteste erano arrivati anche in caserma, soprattutto perché i militari temevano, adesso, di perdere i diritti legati alla cittadinanza svizzera. Per tutta risposta, era stata negata loro la libera uscita, nel timore che qualcuno dei più agguerriti potesse provocare incidenti o disordini in città, coinvolgendo anche la popolazione civile. Non era bastato?
Gli ufficiali borbonici, infatti, non avevano previsto che ad insorgere sarebbero stati i militari del 3° reggimento, coloro i quali si erano già distinti per ferocia e crudeltà, nella repressione dei moti catanesi nel 1849. Erano proprio loro che, dieci anni più tardi, marciavano con foga, all'alba del 7 luglio, verso la zona di Capo di Chino; erano sempre loro a dare inizio agli scontri armati, quella stessa notte, malgrado i tentativi di mediazione provenienti dalla reggia di Capodimonte. A quel punto, non restava che rispondere alla violenza con altra violenza: il coordinamento della repressione veniva dunque affidato al generale Alessandro Nunziante, mentre gli svizzeri davano vita ad un'escalation di brutalità. Uno dietro l'altro, i cadaveri toccavano il suolo: gente comune, fino al giorno prima considerata amica, e naturalmente soldati borbonici; il tenente Roverea e tre semplici reclute morivano sul colpo, Haller e Stetteler riportavano gravi ferite.
A quel punto, anche gli altri corpi svizzeri sceglievano di intervenire, per bloccare quella spirale di violenza, e accettavano di combattere contro i loro compatrioti. Era una decisione quanto mai difficile e dolorosa, come dimostra il sofferto Memoriale che il generale Von Mechel, a capo del 13° battaglione Cacciatori, inviava al re pochi giorni più tardi, per dar conto del suo leale operato (clicca qui per leggerlo). Solo dopo una settimana, grazie anche a quegli interventi straordinari, era finalmente possibile stroncare la rivolta: a quel punto, però, Francesco II appariva quanto mai determinato a sciogliere i reggimenti svizzeri, intimando l'estradizione a tutti i loro componenti. Già il 23 agosto venivano imbarcati 736 uomini del 3° reggimento, nei giorni successivi ne partivano 637 del 2°. Secondo le direttive del sovrano, a loro avrebbero dovuto aggiungersi anche i militari del 4° e del 13° battaglione, che pure avevano imbracciato le armi per riportare l'ordine. L'applicazione di quelle misure, tuttavia, non era affatto semplice: alle proteste di chi, come Von Mechel, continuava a rivendicare la propria fedeltà alla corona borbonica, si aggiungevano infatti le suppliche di coloro i quali non volevano lasciare il Regno. Giovanni Shlupps, per esempio, scriveva al generale Filangieri affinchè gli permettesse di restare, perchè «sposato con una napoletana, che è incinta, ed avendo mutato religione da protestante a cattolica». Pur di vivere nelle Due Sicilie, il soldato si offriva di assumere il rango di «semplice paesano».
Era una richiesta accorata, la sua, e non certo l'unica. Migliaia di lettere si muovevano su e giù per le province, scuotendo l'animo dei funzionari incaricati di dare luogo alle partenze e gettandoli in confusione circa la giusta decisione da prendere. Quella misura, del resto, era destinata a causare un enorme sconvolgimento nella configurazione dell'esercito, e proprio per smorzarne in qualche modo l'impatto Francesco II acconsentiva infine a sostituire i corpi soppressi con dei nuovi battaglioni, secondo il progetto presentato da Von Mechel. Sarebbero stati proprio questi corpi, di lì a qualche mese, a battersi con valore e coraggio nella disperata difesa del Regno delle Due Sicilie all'indomani dello sbarco dei Mille.

S.A.G.